Sin dall’inizio ricordiamo, ancora una volta, che parlare di elezioni nel regime teocratico al potere in Iran è un azzardo. Il rito delle elezioni nella Repubblica islamica, una volta strumento per ingannare l’Occidente e per chiudergli la bocca, ora è diventato un mero strumento di epurazione di chi non si allinea all’assolutismo. Secondo l’articolo 99 della Costituzione del regime integralista al potere in Iran, formalmente tocca al Consiglio dei guardiani la supervisione delle elezioni e il controllo dei candidati.
Il Consiglio dei guardiani, composto da 12 membri, metà dei quali è nominato dalla Guida Suprema, Ali Khamenei, e l’altra metà dal capo della magistratura, che a sua volta è designato dalla Guida, cioè da Ali Khamenei. Formalmente, ma la prassi è ben più restrittiva e lascia spazio solo agli allineati. Screzi, attriti e vari incidenti di percorso, derivati dalla natura reazionaria del regime teocratico, in guerra con l’umanità, ora ingannano solo chi vuole essere ingannato. Tutta questa diatriba non ha nulla di democratico e non risponde alle istanze del popolo iraniano. In un audio “riservato” di Javad Zarif, rivelato il 4 maggio, il capo della diplomazia del regime spiega esplicitamente la struttura del potere a Teheran, e ribadisce chiaramente la predominanza dei ruoli in seno del regime.
L’articolo 115 della Costituzione del regime e l’articolo 35 della sua legge elettorale stabiliscono i requisiti per i candidati presidenziali, limitandoli di fatto ai maschi musulmani, fedeli e con convinzioni dichiarate verso il vero detentore del potere, la Guida, il vicegerente di Dio sulla terra. Non bastasse, il Consiglio dei guardiani recentemente ha aggiunto ulteriori esclusioni, un aggiustamento tattico per eliminare sgraditi e prendere un passo ancora verso l’omologazione definitiva.
All’ultimo rito elettorale, le elezioni legislative del 21 febbraio 2020, il Consiglio dei guardiani ha bocciato oltre il 56 per cento dei candidati, la maggior parte dei quali appartenenti ai cosiddetti “riformisti” o “moderati”. Il risultato è che dei 290 membri del majlès soltanto 30 sono “indipendenti”, e solo 16 “riformisti”. In queste elezioni il regime è stato costretto, per prima volta, a fornire un numero inferiore al 50 per cento dei partecipanti al voto; sebbene in verità il numero reale dei votanti difficilmente superasse il 24 per cento e in molti seggi a Teheran fosse meno del 10 per cento, senza contare che in più del 70 per cento dei seggi correva un solo candidato; se queste sono elezioni! Pare invece che lo sia per gli apologeti della teocrazia iraniana!
Le tredicesime elezioni presidenziali si terranno il 18 giugno, la registrazione dei candidati è cominciata l’11maggio e si chiude il 15. Il Consiglio dei guardiani vaglierà le candidature entro 10 giorni. Questo rito pilotato tuttavia è diventato nel tempo un problema per la teocrazia iraniana. Dopo la morte del fondatore della Repubblica islamica, Ruhollah Khomeini, nel 1989, il successore Khamenei, un mullà di rango inferiore e privo di carisma, ha dovuto affrontare ed eliminare tutti i suoi rivali e quei personaggi che potevano minare il suo potere. Per questo, oltre all’ampio potere che la Costituzione gli concede, Khamenei una volta salito sul trono ha cercato di creare un potere parallelo, la Casa della Guida, che man mano ha inglobato di fatto anche la quota di potere esecutivo del presidente e del governo. Khamenei per mezzo del Consiglio dei guardiani ha bocciato, nel 2005, la candidatura di Ali Akbar Hāshemi Rafsanjani uomo potente del regime, e nel 2017 lo ha eliminato. Nelle presidenziali del 2017, Khamenei ha dovuto anche bocciare il suo pupillo, il bizzarro Mahmud Ahmadinejad; perché il vicegerente di Dio sulla terra non ammette discrepanza alcuna.
Dopo l’omologazione del majlès, Khamenei per il suo regime ha espresso il desiderio di un “giovane governo hezbollah”. L’altro giorno, l’11 maggio, il presidente del majlès Mohammad Bagher Ghalibaf, potenziale candidato alla presidenza, ha rinunciato alla sua candidatura a favore di Ebrahim Raisi, capo del sistema giudiziario del regime, definito da Hassan Rouhani, l’uomo delle impiccagioni. La Guida del regime islamico, Ali Khamenei, avrebbe l’intenzione di far uscire dal cilindro delle urne il famigerato Ebrahim Raisi, responsabile dell’eccidio dei 30mila prigionieri politici nel 1988. Non è detto che la cosa gli sia possibile, visto la morsa della crisi economico-sociale e la crisi e l’isolamento internazionale in cui riversa il Paese, ma il desiderio di uniformare i tre poteri dello Stato è forte.
I sondaggi che circolano mostrano che circa l’80 per cento degli elettori non si recherà alle urne, e che molti iraniani esprimono il no con una rabbia mai vista. Non è sicuramente un caso che almeno l’80 per cento della popolazione iraniana vive al di sotto della soglia della povertà. La vera questione per Ali Khamenei è celebrare queste elezioni senza grandi danni: trascinare il maggior numero possibile di elettori alle urne, per sbattere in faccia dell’Occidente la sua legittimità; evitare l’esplosione della rabbia della popolazione ridotta alla fame, che secondo la Banca centrale del regime vive per oltre il 50 per cento al di sotto della soglia di povertà; e in fine omologare la struttura dei poteri. Il ministro degli Esteri del regime, Mohammad Javad Zarif, ha ribadito, nell’audio rivelato, che la priorità di Khamenei nell’affrontare gli affari del Paese è la sicurezza della sopravvivenza della Repubblica islamica.
Le elezioni in questo regime innaturale che nel novembre 2018 in due giorni massacra oltre 1.500 pacifici manifestanti e abbatte volutamente un aereo che trasporta 176 esseri umani, l’8 gennaio, è una ignobile farsa che offende ogni coscienza democratica. Nient’altro.
Aggiornato il 14 maggio 2021 alle ore 11:44