Afghanistan Inshallah: Kabul addio

Il Nation building? Un’utopia o un neologismo imperialista? Né l’una, né l’altro, a quanto pare. L’ideologia che gli aveva dato i natali agli albori del XXI secolo venne concepita ed elaborata all’interno dei santuari repubblicani dei think-tank americani, prima di essere definitivamente seppellita da eventi storici avversi. Tali furono, infatti, i disastri conseguenti all’invasione americana dell’Afghanistan e poi dell’Iraq, che hanno causato milioni di vittime civili e militari, corredate da una lunga scia di distruzioni e di migrazioni di massa delle popolazioni vittime della guerra.

Oggi, di nuovo, per decisione irrevocabile di Joe Biden, intenzionato a mettere fine alle “guerre che non finiscono mai!”, le residue truppe Usa abbandoneranno definitivamente Kabul e l’Afghanistan a partire dalla data simbolica dell’11 settembre, venti anni dopo esatti dal giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Tutti (soprattutto la stampa anglosassone) discettano sui pro e i contro della scelta del presidente americano per quanto riguarda il contrasto al terrorismo internazionale. Ma nessuno, a quanto pare, guarda indietro analizzando le conseguenze che quell’invasione, dettata dalla volontà di liberare il mondo dal terrorismo islamico, ha innanzitutto comportato per gli afgani stessi, oltre che per noi occidentali.

Per capire, è opportuno tornare dieci anni addietro, quando Hamid Karzai (a capo di una sorta di Governo fantoccio degli Usa, analogo ai suoi omologhi sovietici che si sono avvicendati dal 1979 al 1989, anno quest’ultimo del ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan), controllava il Paese esclusivamente attraverso la corruzione, mentre i signori della guerra continuavano a spartirsi il territorio e i proventi della raccolta dell’oppio. Oggi, le milizie di allora si stanno palesemente riarmando, dando per scontata la caduta dell’attuale regime per mano dei talebani di ritorno, a seguito del ritiro dei soldati Usa.

Tra non molto, occorrerà decidere se riarmare pesantemente quei signori della guerra, o rischiare che, comunque, si autofinanzino con la coltivazione del papavero da oppio, scatenando una nuova guerra civile. Dieci anni fa, a dimostrazione che un’occupazione militare è del tutto antinomica al concetto civile di Nation building, le cronache riportavano la drammatica, totale carenza dei servizi di base per i cittadini afgani: la rete elettrica era semplicemente fatiscente e le fogne a cielo aperto prendevano il posto dei marciapiedi! Anche oggi, scuole e presidi ospedalieri reggono grazie a donatori internazionali che garantiscono gli stipendi a insegnanti e medici, anche nelle province attualmente controllate dai talebani. Ieri (e c’è da credere che da allora le cose siano solo peggiorate!) la corruzione a livello governativo era tale che più della metà dell’aiuto internazionale andava dilapidato in… bustarelle!

Del resto, come dare torto all’allora vicepresidente democratico Joe Biden, quando all’epoca affermò stizzito che si rifiutava di rimandare suo figlio a rischiare la vita in Afghanistan per difendere i diritti delle donne afgane: “Le cose non funzionano così! Non è per questo che i nostri soldati sono lì”? Di fatto, rimangono molte domande in sospeso sul futuro dell’Afghanistan. Ad esempio: con il ritiro della Nato e degli americani le organizzazioni dei talebani sfrutteranno oggi come ieri il malcontento popolare, soprattutto tra le fasce di giovani uomini che non hanno di che mantenere le loro famiglie?

Un decennio fa, si rivelò molto facile per i capi talebani reclutare miliziani a buon mercato, offrendo ai giovani disoccupati una paga di 200 dollari al mese (pari a 7 volte il guadagno medio mensile per chi aveva un lavoro non qualificato!). Morale: dopo un’occupazione ventennale, esiste o no in Afghanistan uno Stato degno di questo nome? Le condizioni di vita dei cittadini afgani sono forse migliorate in questo ventennio, e quali istituzioni pubbliche affidabili l’occupazione Usa ha contribuito a creare? In futuro, è lecito supporre che anche Joe Biden, come Barack Obama, sarà presto obbligato a riflettere sull’eventuale afghanizzazione di un nuovo conflitto tra talebani, governo nazionale e milizie locali? Oggi come ieri il problema è ancora e sempre Al Qaeda, mai morto e neppure visibilmente vivo. Gli occidentali sono terrorizzati dal suo ritorno in modalità embedded, cioè mimetizzato e protetto all’interno delle formazioni guerriere e civili degli scolari di Dio. Anche l’Isis, inviso però ai talebani, presto sarà più presente nell’area, anche se tutti i fondamentalisti islamici hanno ben in mente il disastro militare recente del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, letteralmente cancellato dall’intervento militare occidentale e iraniano (addirittura quest’ultimo rivelatosi più efficace di tutti gli altri!).

Nel frattempo, i politici di Washington e i militari del Pentagono sembrano ossessionati dallo schema denominato “Conditions-based-approach” per la conduzione a distanza, al di fuori dell’Afghanistan, delle operazioni (più o meno coperte) di antiterrorismo. Del resto, come dimostra l’insuccesso del passato recente, lanciare sui bersagli rappresaglie con missili Cruise in dotazioni alla flotta Usa significa tener conto delle distanze operative, del tempo di trasporto delle forze speciali e delle condizioni presenti al momento sul terreno di scontro, la cui errata valutazione potrebbe provocare un fallimentare disastro. Senza stare poi a parlare delle notevoli risorse logistiche implicate dagli scenari dei così detti “attacchi al di sopra dell’orizzonte”. Del resto, sono proprio gli stessi servizi segreti Usa a dedicare appena una paginetta nel loro ultimo rapporto ai rischi connessi al terrorismo globale, stile “9-11” (attacco alle Twin Towers). Del resto, il presidente Usa ha urgente necessità di stornare importanti risorse dalle missioni militari (fallimentari) all’estero, e particolarmente dal Medio Oriente, per fronteggiare la sfida internazionale di Cina e Russia.

Il nocciolo del discorso sul ruolo Usa in Afghanistan è, infatti, il seguente: l’attuale contesa economica e geopolitica con la Cina ha precedenza assoluta sull’illusione che in pochi anni ancora (dopo aver inutilmente dilapidato in un ventennio qualcosa come 2mila miliardi di dollari e aver perso circa 2.500 soldati), e con ulteriori stanziamenti di bilancio per la difesa, l’America possa raggiungere gli obiettivi mancati in questi venti anni di occupazione! Nessuno sarebbe più felice di Xi Jinping, del resto, di vedere i militari Usa impantanati nel pasticcio afgano ancora per chissà quanto tempo. E, certamente, non saranno i talebani a intralciarne il ritiro previsto a settembre 2021, in base al detto: “Mai impedire a un nemico di commettere un errore!”. E l’Italia? Noi seguiremo immediatamente a ruota gli Stati Uniti. Come sempre.

Aggiornato il 20 aprile 2021 alle ore 10:43