In Birmania non si placano le violenze

La situazione in Birmania è ormai gravissima. Dopo il golpe militare del primo febbraio, la presa di potere da parte dell’esercito e l’arresto della leader democratica alla guida del governo del Paese, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi (con accuse ridicole, come l’importazione illegale di walkie-talkie), gli eventi hanno preso una piega drammatica. La giunta militare ha assicurato che si tratta solo di una situazione temporanea (nemmeno a dirlo, giusto il tempo di “ristabilire l’ordine”) e che presto ci saranno nuove elezioni.

Nel frattempo, è stato dichiarato lo stato d’emergenza per un anno, sono state sospese tutte le principali garanzie democratiche e costituzionali, è stato oscurato internet, sono state interrotte tutte le comunicazioni con l’esterno e bloccati i flussi, in ingresso e in uscita, dal Paese. Naturalmente, la popolazione è insorta dinanzi all’ennesima intromissione delle forze armate nella vita politica della nazione in un Paese che – lo ricordiamo – per decenni si è visto guidato dai militari e sottoposto dagli stessi ad una morsa di repressione e terrore.

Dalla data del golpe è stato un susseguirsi di manifestazioni, proteste e scioperi volti chiedere la liberazione di Aung San Suu Kyi e l’immediato ritorno alla democrazia. La risposta dei militari, com’era prevedibile, è stata la repressione a base di sparatorie sui manifestanti, violenze, arresti arbitrari e c’è chi parla persino di esecuzioni sommarie per strada.

Le città del Myanmar sono diventate un vero campo di battaglia. Il bilancio dei morti dall’inizio della vicenda viene stimato dall’Onu a 149 vittime; mentre secondo una Organizzazione non governativa locale, l’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici (Aapp), il numero delle persone uccise ammonterebbe a 200 e oltre. A questi si devono aggiungere i 1300 arrestati, tra i quali molti giornalisti, sempre più spesso accusati di essere spie al soldo delle potenze straniere, di diffondere informazioni false o di istigare la cittadinanza all'insurrezione e al disordine.

Il tutto è aggravato dalla situazione economica che rischia di precipitare nuovamente, dopo anni in cui si era assistito ad una notevole crescita (stimata attorno al 6-7 per cento) e a un generale miglioramento delle condizioni di vita in tutto il Paese, anche grazie alla progressiva apertura al libero mercato e agli scambi internazionali. Controverso il ruolo della Cina nella faccenda: all’inizio decisa a mantenere un sostanziale disinteresse per quelli che vengono giudicati “affari interni”; successivamente, vedendo i suoi interessi economici nel Paese concretamente minacciati, schieratasi dalla parte dei militari, raccomandando addirittura l’uso del pugno di ferro contro la popolazione insorta, che ha reagito minacciando il boicottaggio dei prodotti e delle attività cinesi sul territorio, primi fra tutti l’oleodotto e il gasdotto che dovrebbero trasportare petrolio e gas dall’Oceano Indiano direttamente in Birmania.

Quello che salta immediatamente agli occhi è l’opposizione tra due opposte concezioni del mondo: quella dei manifestanti, desiderosi di conservare il clima di libertà, prosperità e apertura venutosi a creare negli ultimi anni; e quella dei militari, nostalgici di quell’aria plumbea, fatta di chiusura, isolamento, autoritarismo e terrore, ma soprattutto – almeno dal punto di vista economico – di protezionismo. Infatti, ed è quello che i principali media hanno omesso di dire, nonostante sia da ritenersi un dato rilevante, tutte le principali aziende, pubbliche e private, sono nelle mani dei capi militari o di loro stretti famigliari, amici e collaboratori. Dunque, il sospetto che il golpe sia una risposta protezionistica al processo di graduale liberazione civile e apertura economica del Paese è più che fondato.

La comunità internazionale esprime unanime condanna delle violenze e del rovesciamento del governo democratico. Ma l’Occidente non può limitarsi alle sole parole d’indignazione o a delle generiche sanzioni, che pure sono importanti: quello che serve è una concreta ed efficace azione diplomatica, per ristabilire la democrazia e salvare la Birmania da quelli che si prospettano essere nuovi lunghi anni di dittatura. Non si può restare indifferenti davanti alla sofferenza di quelle popolazioni, né ancor meno dinanzi al loro desiderio di libertà, per la quale i birmani hanno dimostrato chiaramente di essere disposti a morire.

Aggiornato il 19 marzo 2021 alle ore 17:37