“Gli Inglesi sono forse il popolo più rimarchevole che sia mai esistito”, scriveva il filosofo scozzese David Hume, nel 1748. Spinto in parte da questa osservazione e in parte dalla recente rinascita dell’Inghilterra come entità politica distinta, mi sono chiesto: “Chi sono gli Inglesi”. Alla ricerca di una risposta, mi sono immerso tra scricchiolanti scaffali di libri e di articoli sul carattere nazionale inglese, molti scritti da personaggi illustri. Purtroppo, però, la saggezza di ognuno di loro combinata a quella di altri costituisce un’enorme contraddizione. L’eminente storico Mandell Creighton mi ha incoraggiato a iniziare con l’osservazione che “gli Inglesi sono stati i primi a forgiare per se stessi un carattere nazionale”. Poi, Creighton ne ha definito la motivazione dominante, ossia avere “un desiderio ostinato di fare le cose a modo proprio, senza alcuna interferenza esterna”. Molti concordano con questa idea di un popolo inglese amante dell’indipendenza. John Stuart Mill, il filosofo considerato uno dei padri del liberalismo, osservava “quanto sia ripugnante per il carattere inglese qualcosa di simile alla spavalderia” che, anziché intimidirlo, accresce la sua “tenace determinazione (…) a non lasciarsi maltrattare”. Stanley Baldwin, tre volte primo ministro britannico, elogiava i suoi connazionali con queste parole: “L’Inglese è fatto per i tempi di crisi e per i momenti di emergenza. È sereno nelle difficoltà, ma può sembrare indifferente quando i tempi sono facili”. David Cameron, che in seguito divenne premier, definì la britannicità, l’essere britannici, “una libertà sotto lo Stato di diritto”.
Per quanto convincenti siano queste definizioni, altri autori inglesi adottano un punto di vista differente. Edmund Dale, uno storico medievale, definiva gli Inglesi “semplici, rudi, pazienti, ostinati”. George Orwell li trovava amabili, insulari, non dotati artisticamente, non intellettuali, non particolarmente pratici, ma un “popolo di sonnambuli”, ipocriti di fama mondiale e amanti dei fiori. William Somerset Maugham affermava che “gli Inglesi non sono una nazione sessuale”, un’opinione confermata (nutrono “poco interesse per l’attività sessuale”) dai risultati dell’approfondita ricerca condotta dall’antropologo Geoffrey Gorer. Il mio collega Sam Westrop offre forse la definizione più arguta: “Essere Inglesi è lo stato quantico sia di puro sollievo che non siamo Francesi sia di un silente desiderio di essere qualcosa di più”.
A proposito dei Francesi, il romanziere Honoré de Balzac definì gli Inglesi nobili. Lo scrittore spagnolo Salvador de Madariaga li vedeva come uomini d’azione. Il belga Maciamo Hay riteneva che fossero “spiriti liberi, educati, critici, volubili, classisti, polarizzati, pragmatici, intraprendenti, divertenti, riservati”. Il filosofo americano Ralph Waldo Emerson ha focalizzato l’attenzione sul “coraggio”. Lo storico americano Henry Steele Commager li definì “talmente prosaici, flemmatici e materialisti”. I gruppi di discussione hanno sintetizzato il carattere inglese in tre parole: riservato, rigido e snob”.
I mediorientali in genere hanno una pessima opinione degli Ingliz. Un motivetto dell’era ottomana li definiva “irreligiosi”. Jamal ad-Din al-Afghan, uno dei primi islamisti, li considerava “poco intelligenti, dotati di grande perseveranza, ambizione, avidità, testardaggine, pazienza e superbia”. Secondo l’autore iraniano Jahangir Amuzegar, gli Inglesi sono “freddi, furbi, padroni di sé, deferenti”. Mehmet Sıddık Gümüş, un complottista turco, li ha descritti come “un popolo vanitoso e arrogante”. Allargando la prospettiva, Geoffrey Gorer scriveva nel 1955 che “il carattere inglese è cambiato molto poco negli ultimi 150 anni, e forse anche di più”. Al contrario, lo storico Peter Mandler ha passato in rassegna le idee dei britannici in merito al loro carattere nazionale dal 1800 al 2000 e ha rilevato che erano in costante cambiamento.
Complessivamente, queste riflessioni mi indicano che gli Inglesi sono (paradossalmente) sereni e volubili; fraterni e vanitosi; equi e avidi; superbi e deferenti; ipocriti e gentiluomini; flemmatici e divertenti. Va da sé che tale serie di opposti non è indicativa di nulla. Fa pensare a una previsione astrologica che predice gioia e miseria, così come serenità e tumulto, guadagni e perdite. Forse è così che deve essere. Nel 1701, Daniel Defoe scriveva che “da un miscuglio di ogni specie ebbe inizio/Quella cosa eterogenea che è un inglese”. Nel 2004, la giornalista Amelia Hill liquidava così lo sforzo complessivo: “A parte le bianche scogliere e il maltempo, nulla è per sempre l’Inghilterra e, per quanto antica sia la ricerca dell’essenza della britannicità, questa ricerca è illusoria”. Paradossalmente, David Hume va oltre, negando la validità stessa dell’argomento: “Gli Inglesi, fra tutti i popoli dell’universo, hanno il carattere nazionale meno spiccato; salvo che proprio questa singolarità non possa passare per tale”. E se questo era vero nel 1748, quanto più veritiero è oggi, a seguito dell’immigrazione su larga scala. Con questo, la mia indagine approssimativa è destinata a subire una battuta d’arresto, lasciandomi confuso. Più triste e non più saggio, abbandono la ricerca del carattere nazionale inglese per tornare a quell’argomento più semplice a cui abitualmente mi dedico: il Medio Oriente.
(*) Traduzione a cura di Angelita La Spada
Aggiornato il 09 febbraio 2021 alle ore 10:49