In Birmania, per la prima volta dal 1961, nel 2015 viene eletto democraticamente un Governo; la vittoria elettorale di Aung San Suu Kyi sembrava avesse proiettato lo Stato asiatico verso una rotta democratica, ma il Tatmadaw Kyi, l’esercito della Birmania, il primo febbraio ha ripreso il potere. Il Tatmadaw è rimasto un’istituzione dominata da una casta di ufficiali che rifiutano il potere civile. Il colpo di Stato del primo febbraio, con la relativa riconquista del potere, si inserisce nella logica di una dottrina ideologico-militare radicata nella storia dei permanenti conflitti interni e che ha modellato il “Myanmar”, nome ufficiale della Birmania, dal post colonialismo in poi. Questa forte ideologia che avviluppa e assoggetta l’élite militare della Birmania, ma anche l’esercito nel suo complesso, nasce da una visione del ruolo dei militari e dalla convinzione radicata, nei soldati di ieri e di oggi, di avere un compito fondamentale da svolgere nella società birmana che è quello di essere i garanti di una singolare unità nazionale.

Su questa base ideologica, che si avvicina molto ad una visione dottrinale dell’appartenenza al Tatmadaw, l’esercito non ha mai cessato, dall’indipendenza raggiunta nel 1948, di essere uno Stato nello Stato; infatti anche tra il 1962 ed il 2011, quando limitatamente ad alcuni peridi ha avuto una teorica subordinazione al potere politico, la Birmania è stata incessantemente posta sotto la pressione dei generali. Periodi caratterizzati da rivolte popolari brutalmente represse dall’esercito, con azioni svincolate dalle volontà politiche e costellati da epurazioni interne. Nonostante un “seccante” passaggio di consegne ad un governo democraticamente eletto, appunto nel 2015, il Tatmadaw è rimasto un’istituzione dominata da una classe di ufficiali caratterizzati dallo sprezzo del potere civile, che non si è fatto scrupolo dal condurre azioni violente non utili ad una stabilità politica e sociale del Paese.

L’apoteosi della indiscriminata violenza e della totale autonomia operativa dell’esercito birmano, si è avuta nel 2017 quando si è conclamato uno dei periodi più violenti della storia del Myanmar; durante questa fase si è “celebrata” la peggiore crudeltà dei suoi soldati i quali si sono resi artefici di avere assassinato, violentato e cacciato nel vicino Bangladesh gran parte della minoranza musulmana Rohingya. Dopo queste violenze, che hanno occupato per alcuni mesi le attenzioni dei media internazionali, l’Onu accuserà i generali del Tatmadaw di “intenzioni genocide”; tra di essi il primo della lista era il capo dell'esercito il 64enne Min Aung Hlaing, che è oggi il “capo effettivo” della Birmania e l’artefice principale del colpo di Stato. Rileggendo sotto la luce degli ultimi eventi le dichiarazioni del capo del Tatmadaw Min Aung Hlaing, pronunciate il 22 dicembre 2020, si intuisce che qualche progetto di conquista del potere era in “cantiere”. Infatti durante il suo intervento proclamava che: “l’esercito e lo Stato sono istituzioni necessarie e il Tatmadaw è necessario per il dovere di difesa dello Stato”, aggiungendo un dettaglio significativo che amplia il concetto del ruolo delle forze armate, “che devono essere anche le figure di spicco nella difesa, delle politiche nazionali, della sasana (religione buddista), delle tradizioni, dei costumi e della cultura”. Concetti che delineano un profilo di appartenenza e di missione del Tatmadaw che lo fanno assomigliare ad un “credo” con caratteristiche dogmatiche.

Nel quadro del ruolo della politica birmana è proprio l’ideologicamente ingombrante status dell’esercito che compromette e corrompe ogni possibilità di duratura svolta democratica del Paese, in quanto il Tatmadaw non si posiziona né sotto né sopra lo Stato, forma un’istituzione parallela centrata sull’obbligo di difesa della nazione, con un approccio nazionalista e razzista. L’arresto di Aung San Suu Kyi, del presidente della Repubblica, Win Myint e di altri funzionari del suo partito, ha suscitato una unanime condanna in tutto il mondo. A poco più di dieci anni dal rilascio di San Suu Kyi, che pose fine ai suoi quindici anni di arresti domiciliari durante la dittatura militare, l’ex dissidente e ora anche ex leader della Birmania, si ritrova a dover lavorare nuovamente sul “telaio da tessitura” della politica e della democrazia. Ma oggi è supportata anche dal portavoce delle Nazioni Unite, Stéphane Dujarric che ha affermato: “L’importante è che la comunità internazionale parli con una sola voce”. Da parte sua, Thomas Andrews, rappresentante speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Myanmar, ritiene che i militari birmani siano colpevoli di un attacco a una democrazia emergente ed al popolo. Nuovamente sulla Birmania compare la minaccia di una fitta nebbia che ombreggia, ancora una volta, sulle scarne membra di una giovane e fragile democrazia. Intanto, i golpisti hanno posizionato un presidente ad interim, l’ex generale Myint Swe, che ha annunciato un anno di coprifuoco per garantire la sicurezza nazionale, forse da loro stessi, in attesa di nuove elezioni.

Aggiornato il 03 febbraio 2021 alle ore 11:58