Il fallimento della “Primavera araba”

Cosa rimane oggi a dieci anni di distanza dall’inizio di quella speranza definita “primavera araba”? Era la fine del 2010, quando il mondo arabo, sospinto da un potente soffio di libertà, ha iniziato a sperimentare una serie di improbabili rivolte popolari; il sogno durò pochi mesi prima di risvegliarsi più o meno come prima. L’evento senza dubbio ha avuto una portata storica, che ha cambiato definitivamente quell’atavico senso di sudditanza sultanale” del popolo arabo; ma i risultati ottenuti dalle rivolte per ottenere una libertà condizionata da troppi fattori, da quello politico a quello religioso, sono stati di diversa forma e molto spesso deludenti, lasciando molti paesi in una situazione peggiore rispetto a prima. Dallo Yemen alla Tunisia, attraversando la Siria, la Libia, l’Egitto le manifestazioni e le rivendicazioni popolari sono state seguite nel migliore dei casi da riforme transitorie e nel peggiore dei casi da un ritorno ad un sistema ancora più autoritario, farcito da latenti conflitti sociali. Tuttavia, nonostante il generale fallimento della “primavera araba”, il fuoco di questo movimento per la ricerca di una difficile democrazia nel mondo musulmano non si è spento. Infatti, circa due anni fa una seconda ondata di rivendicazioni ha interessato il Libano, l’Algeria, il Sudan ed anche il martoriato Iraq.

Ricordo che tutto ha avuto inizio il 17 dicembre 2010, proprio dieci anni fa, in Tunisia, quando un giovane laureato, venditore ambulante, Mohamed Bouazizi, oppresso dai tormenti del Governo, applicati dalla polizia, si è dato fuoco davanti al governatorato della città di Sidi Bouzid, nel centro della Tunisia. Il sacrificio di Mohamed Bouazizi ha fatto da detonatore ad una situazione sociale in fase di esplosione; facile il richiamo a Jan Palach, immolatosi anche lui al “fuoco della libertà” nel gennaio del 1969, stravolto dall’insopportabile occupazione russa della Cecoslovacchia. Il gesto di Bouazizi assunse un significato anche poetico nella sua drammaticità, la ricerca della morte per combattere i despoti oppressori fu d’ispirazione al popolo per affrontare i successivi sacrifici. Bouazizi morì per le ferite il 4 gennaio 2011, ma il gesto di questo giovane scagliò uno strale contro il regime del presidente tunisino Zine el Abidine Ben Ali, al potere da 23 anni. Ben Ali divenne il primo autocrate arabo costretto a dimettersi sotto la pressione del suo popolo; esiliato in Arabia Saudita, lì si spense nel 2019 nell’assoluta indifferenza.

 

Così il 25 gennaio 2011, pochi giorni dopo la morte di Bouazizi, la rabbia esplose al Cairo, le strade si riempirono di giovani egiziani che accesero anche lì il fuoco della protesta, chiedendo le dimissioni del presidente Hosni Mubarak, al potere dal 1981. Le urla degli egiziani venivano ispirate da quelle tunisine e replicavano le angosce e le speranze: “fuori!”, “irhal!”, dirette a Mubarak. Ed anche “la gente vuole la caduta del regime”, “Al-shaeb yurid ‘iisqat an-nizam”. La “Rivoluzione dei gelsomini” tunisina si replicò con le famose proteste di piazza Tahrir, purtroppo con il tributo finale di centinaia di vittime e alcune migliaia di feriti, che condussero il presidente egiziano alle dimissioni l’11 febbraio, poi all’esilio a Sharm-el-Sheikh; Mubarak è morto il 25 febbraio 2020 a 91 anni.  Oltre a Ben Ali e Mubarak, quella che sembrava la primavera araba, ma che già stava dando i primi segni di mutamento in un’ottica di influenze internazionali, permise di rovesciare Muammar Gheddafi in Libia, Ali Abdullah Saleh in Yemen e otto anni dopo, Omar al-Bashir in Sudan. Durante i primi mesi di questo sconvolgimento storico, l’effetto domino sembrava tanto inevitabile quanto gli autocrati arabi sembravano prima intoccabili. Tuttavia, come un pugile colpito da un uppercut, lentamente il Potere dei presidenti arabi si riprese, tanto è che in Egitto l’elezione del 2012 portarono al potere Mohamed Morsi, un islamista appoggiato dai Fratelli Musulmani i cui programmi facevano rimpiangere Mubarak. L’anno successivo Morsi fu deposto dall’esercito, il protagonista fu l’attuale presidente il maresciallo Abdel Fattah al-Sisi che si è posto subito come baluardo contro l'islamismo, atteggiamento benvisto da un Occidente disorientato e a volte incerto.

Tanto per concludere abbiamo sotto gli occhi il deserto che ha portato quella specie di primavera araba, mutata in “Inverno arabo”, in Libia, ed è chiaro cosa sarebbe accaduto se la “democrazia araba” di Baššār Ḥāfiẓ al-Assad non avesse retto in Siria, e come sarebbe stato un salto nel buio se in Marocco, il movimento del 20 febbraio 2011, non sarebbe stato silenziato da riforme cosmetiche e da una “nascosta” repressione giudiziaria, utile al mantenimento di un raro equilibrio socio politico della geopoliticamente strategica Monarchia Nordafricana. Tuttavia, un nuovo modello è nato nel Medio e Vicino Oriente, basato sulla consapevolezza collettiva che i tiranni non sono invincibili e che i cambiamenti possono venire dall’interno e dal basso, e non solo dai burattinai della geopolitica globale. In questa fase storica planetaria, tale concezione sarebbe molto utile se potesse essere recepita anche dal popolo cosi detto occidentale che, anche se in una forma diversa, sta “assaporando”, forse senza consapevolezza, cosa significa vivere, accettare ed abituarsi a forme di soft-dittatura o come nel nostro caso ad una Covid-dittatura.

Aggiornato il 23 dicembre 2020 alle ore 11:06