Presidenze Usa e deep state

Secondo una certa teoria sociologica, il potere, nella società americana, deriverebbe dalla confluenza degli interessi delle élites economica, politica e militare, i cui interpreti, spesso, si alternano o scambiano ruoli. Testimoniava questa convergenza di interessi, il messaggio di commiato del monumentale Dwight David Eisenhower (repubblicano, conservatore e liberale) che, da ex-militare e prossimo ex-presidente, avvertiva la nazione dei pericoli del complesso economico-industriale e militare. E non sorprenda che le presidenze democratiche (incluso l’amato, dal fronte progressista, Barack Obama) abbiano, storicamente, sempre dato larga sponda a interventismo e spesa militare. Quasi tutti i principali conflitti o confronti militari dell’epoca contemporanea si sono verificati sotto amministrazioni democratiche: le due Guerre mondiali, il primo e fortunatamente unico ricorso all’arma atomica, Corea, crisi dei missili di Cuba, Vietnam, intervento in Libia. Anche la guerra in Iraq, scatenata dal repubblicano George Walker Bush, non mancò di avere il convinto supporto dei senatori dem. La famosa risoluzione 114 che ne forniva i mezzi finanziari vide, in primo piano, il voto convinto del presidente della Commissione senatoriale dell’epoca: Joe Biden. Bernie Sanders non mancò di usare l’argomento ripetutamente contro l’avversario alle primarie democratiche. Il tema è poi, stranamente, sparito dalla lente dei media, durante la campagna politica per le elezioni di novembre.

Il predecessore Obama ebbe l’onore anticipato del premio Nobel per la pace senza, nonostante questo, sentirsi trattenuto, poi, dall’avere, ogni giorno della sua presidenza, soldati americani “boots on the ground”, come dicono loro, ossia dispiegati in combattimento su qualche fronte. Al contrario, il disimpegno militare promosso dall’Amministrazione di Donald Trump ha, sin dall’inizio del mandato, attirato le critiche dei settori progressisti, riluttanti ad abbandonare il ruolo americano di poliziotto del mondo ed “esportatore di democrazia”. Le accuse di isolazionismo sono riecheggiate nelle cancellerie europee dei Paesi ai quali Trump aveva chiesto maggior condivisione degli oneri dell’Alleanza atlantica. La posizione anti-interventista si è riflessa anche nel difficile rapporto tra il presidente e il Pentagono.

Poco risalto e merito è stato, invece, dato dalle opposizioni alla risoluzione, con le sole armi della diplomazia, di importanti snodi nel quadrante dei rapporti tra Israele e Paesi della regione e di altri dossier. E con poca eco sui media persino della potente lobby editoriale ebraica, da sempre, sostenitrice delle posizioni di Israele in Medio Oriente. In campo economico, i risultati della politica svolta dalla presidenza Trump – concentrati sulla riduzione delle tasse e della spesa comprimibile (in Usa, per quanto si pensi il contrario, il principale capitolo di spesa non è il bilancio della difesa ma il welfare) – si riflettono nella miglior performance dei principali indicatori: crescita del Pil, picco dell’occupazione, aumento di consumi e investimenti, boom delle principali borse. Eppure, nonostante ogni segmento della vita economica del Paese ne sia risultato beneficiato e, in campo internazionale, il quadriennio sia stato tra i più pacifici delle presidenze Usa, le principali élites del Paese hanno manifestato una crescente ostilità verso la presidenza Trump. Infatti, il presidente non rappresentava nessuna di quelle tre élites – perché è un maverick (termine che in origine definiva un capo di bestiame non marchiato e, oggi, in senso traslato, a connotare persona con comportamenti eterodossi o anticonformisti) - sembrerebbe aver “disturbato” la tradizionale struttura di esercizio del potere. Non a caso, Trump ha tanti avversari in campo politico quanti nemici nel campo dei media, nell’establishment e tra le più influenti powerhouses di Wall Street. Mutatis mutandis – ossia ridefinite le élites, la loro reale agenda e le relative nomenclature – si potrebbe dare analoga lettura della traiettoria politica della Seconda Repubblica italiana e dei suoi principali interpreti. In attesa del sereno giudizio della storia.

Aggiornato il 16 novembre 2020 alle ore 09:54