La Cina tra Trump e Biden: il pericolo giallo

Chi vincerà le presidenziali americane? La Cina. Senza dubbio alcuno. Perché la vera posta in gioco “è” Pechino. Una battaglia che non si vince con le armi (per ora, almeno) e nemmeno con i cuori, ma più semplicemente con il predominio sulle nuove tecnologie e, soprattutto, con l’esportazione delle merci e il monopolio della finanza internazionale. Le politiche estere di Joe Biden e Donald Trump sulla Cina rappresentano, pur nella loro diversità, due rette sghembe che si incontrano in un punto definito: impedire a Pechino di divenire la prima potenza industriale globale a spese dell’economia americana, cosa che metterebbe in secondo piano l’influenza degli Usa nel mondo. Sia il presidente uscente che il suo sfidante si trovano oggi di fronte allo stesso identico dilemma: come e con quali mezzi, economici, diplomatici e, se occorre, militari, contrastare il nascente nazionalismo capitalcomunista cinese. Formula quest’ultima assolutamente inedita, ideata dal presidente a vita Xi Jinping, che miscela e centrifuga in un precipitato ideologico indistinto un mix di Maoismo, Denghismo e Confucianesimo da Celeste Impero che ha dato vita a uno Stato centralizzato e dispotico, fondato in massima parte sul Grande Fratello del Surveillance State, e su di un capitalismo nazionalista drogato dall’immensa liquidità immessa nel circuito economico cinese dalla sua Banca centrale. Sono proprio gli enormi guadagni in dollari delle esportazioni cinesi, mallevate da quei capitali statali, che oggi hanno consentito a Pechino di guadagnare posizioni strategiche all'interno dell’Onu e delle sue Agenzie.

Ed è ancora quella ricchezza (drogata sia da un mostruoso dumping sul costo e sulla sicurezza del lavoro, sia dalla distruzione dell'ecosistema) che sta a monte delle scelte planetarie per la conquista pacifica (per ora) del resto del mondo, con il varo dei megaprogetti e dei cofinanziamenti della Road Belt Initiative. In merito, né l’America, né l’Occidente sono stati in grado di replicare, mettendo pacificamente in campo un’iniziativa simile in comune per la conquista degli altri tre continenti. E Dio sa se ce ne sarebbe disperatamente bisogno, soprattutto a causa degli immensi danni economici provocati dall’attuale pandemia. Per gli aspetti riguardanti la politica interna americana e le imminenti elezioni presidenziali, milioni di white blue collar (i metalmeccanici bianchi americani) nel 2016 hanno voltato clamorosamente le spalle ai democratici, per scegliere il Make America great again di Trump, con la sua promessa di riportare in patria le grandi industrie del settore che avevano delocalizzato in Cina ai tempi della prima fase di globalizzazione selvaggia. E anche oggi, quando quei ritorni promessi non si sono avverati che in minima parte, e a costi estremamente vantaggiosi per i capitalisti americani, quegli operai (di cui non pochi conservano ancora nel loro portafogli come simbolo identitario il tesserino di iscrizione al sindacato metalmeccanico) restano fedeli a Trump. Questo perché almeno in una cosa fondamentale il presidente uscente non li ha delusi: quella di dichiarare la guerra commerciale alla Cina e alla sua concorrenza sleale, con l’imposizione di dazi e la fine del multilateralismo, come lo si è ben visto nel caso delle sanzioni ad Huawei sul 5G, che ha spinto le grandi industrie americane di microcomponentistica a ridurre drasticamente le proprie vendite in Asia.

Il virus cinese ha poi dato una possente mano propagandistica a Trump e la politica nazionalista espansiva di Xi Jinping è entrata a pieno titolo nel mirino della Casa Bianca, dopo la svolta liberticida per la repressione del dissenso giovanile a Hong Kong e le continue minacce a Taiwan di riannessione forzata anticipata. Joe Biden, però, deve far dimenticare il suo passato di grandi simpatie per la Cina. Infatti, nel 1979 era stato tra i primi a incontrare Deng Xiaoping, mentre nel 2011, come vice di Obama, aveva ricevuto l’incarico dal Presidente americano di intrattenere rapporti diretti con il suo omologo dell’epoca, proprio quel Xi Jinping che, allora, gli era sembrato un inoffensivo burocrate di partito e del quale sleepy Joe (il bell’addormentato, come lo definisce causticamente Trump) arrivò a dire, all’atto dell’investitura di Xi a Presidente della Cina nel 2013, di essere un suo buon amico. Cosicché Biden ha dovuto, giocoforza, operare un doppio salto mortale passando dalla strategia empatica alla sua versione opposta e ben più muscolare, definendo recentemente Xi Jinping come un “tipo poco raccomandabile, senza nemmeno un’oncia di democrazia nelle sue vene”. E dalle parti della Città Proibita saranno fischiate le orecchie a parecchia gente, a proposito di un’ipotetica presidenza Biden, con il suo temibile portato di rivendicazioni sul rispetto dei diritti umani, per quanto riguarda in particolare le persecuzioni del regime cinese verso le proprie minoranze, questione degli Uiguri e di Hong Kong in testa a tutti. Il timore dei mandarini del Partito Comunista cinese è che l’America di Biden possa chiamare a raccolta sui diritti umani le democrazie europee e asiatiche, creando così un fronte unito anticinese.

Ovviamente, Trump strumentalizza nella sua propaganda elettorale il fianco scoperto di Biden con lo slogan: “Se Biden vince, vince la Cina!”. Da qui a dire, però, che Pechino tifi per il suo sfidante ce ne corre. La questione, del resto, è chiara: esiste una presa di posizione nettamente bipartisan che considera la sfida all’Occidente da parte della Cina come una minaccia serissima sul piano economico, geopolitico, militare e ideologico. Secondo un’indagine recente del Pew Research Center (un think tank statunitense con sede a Washington) all’incirca tre quarti degli americani ha un’opinione negativa sul gigante asiatico. Pechino, malgrado le apparenze, potrebbe preferire la rielezione di Trump che, con i suoi atteggiamenti e l’innata tendenza all’isolazionismo, ha di fatto favorito l’emergenza dell’Impero di Mezzo sulla scena mondiale. Da questo punto di vista, infatti, l’atteggiamento muscolare di Trump ha avuto ben scarsi effetti pratici: da un lato, il mercato interno cinese rimane chiuso alle imprese straniere, mentre dall’altro Pechino non ha fatto la minima concessione all’Occidente sui diritti umani. Un secondo mandato a Trump, tuttavia, come dimostra il recente attivismo di Mike Pompeo, potrebbe portare a una strategia che faccia leva sul dissenso interno, per rimettere in discussione il ruolo del Partito Comunista nella società cinese. Veleno puro per Pechino. Come andrà a finire? Lo si vedrà a 2021 inoltrato.

Aggiornato il 30 ottobre 2020 alle ore 10:06