Elezioni o parlamento in un sistema totalitario di stampo teocratico non ha alcun senso e non cambia, sostanzialmente, il processo delle cose. Può ingannare all’inizio; ma col passare del tempo inganna solo chi vuole essere ingannato. La teocrazia al potere in Iran, che non ha alcuna caratteristica di un sistema democratico, ha invece tutte le proprietà di un sistema totalitario. La Treccani definisce così il sistema autoritario: “Sistema politico autoritario, in cui tutti i poteri sono concentrati in un partito unico, nel suo capo o in un ristretto gruppo dirigente, che tende a dominare l’intera società grazie al controllo centralizzato dell’economia, della politica, della cultura, e alla repressione poliziesca”.
Chi conosce o frequenta il regime iraniano sa perfettamente che il regime del velayat-e faghih va ben oltre la definizione della Treccani. Per la Costituzione della Repubblica islamica e per prassi consolidata, il potere, tutto il potere, è incentrato nelle mani del valy-e faghih ovvero la Giuda del regime. Le istituzioni nella teocrazia al potere in Iran non hanno nulla a che fare con la democrazia. Alcune possono avere qualche sembianza democratica, ma non lo sono affatto. Gli analisti di quaggiù, che si arrampicano sugli specchi per trovare appellativi e definizioni accettabili per gli uomini di questo regime totalitario, entrano spesso nel regno della fantascienza. E nonostante aggiustino continuamente il tiro, sempre fuori bersaglio rimangono. Perché ci vuole davvero coraggio a dare del moderato a Rouhani, un cinico uomo degli apparati di sicurezza in un regime violento; ci vuole coraggio! Hassan Rouhani che s’è adoperato sempre nel solco tracciato da Khamenei e non ha mai perso l’occasione di adularlo. Gli stessi screzi tra le varie bande all’interno del regime sono per il dividendo degli interessi e per la natura litigiosa degli uomini. Sono altra cosa dalla natura del conflitto tra la popolazione iraniana e il potere.
Nelle elezioni del majlès del regime, avvenute il 21 febbraio di quest’anno, il Consiglio dei guardiani ha bocciato ampiamente chi non era gradito alla Guida. Tant’è che nel 70 per cento dei collegi si presentava un solo candidato, la cui appartenenza non è difficile da indovinare. Il numero dei votanti, fornito dal regime iraniano, sebbene multiplo di quello reale come sempre, è stato il più basso della storia della Repubblica islamica, per la prima volta al di sotto il 50 per cento; e a Teheran sono andati alle urne, sempre secondo i dati forniti dal regime, meno della metà della percentuale nazionale. Dei 270 membri del majlès 30 sono “indipendenti”, 16 “riformisti” e 230 oltranzisti e 14 seggi sono ancora vacanti. A capo del majlès del regime è stato eletto, il 27 maggio, Mohammad Bagher Qalibaf. Chi è Qalibaf? Nato nel 1961, si vanta di essere stato già a pochi mesi dall’insediamento del regime islamico, ancora ventenne, un picchiatore soprattutto dei simpatizzanti del Mojahedin del popolo. Partecipa alla guerra con l’Iraq, e in qualità di uno dei comandanti si è reso responsabile di ingenti perdite umane da parte iraniana. Fa carriera nel Corpo dei pasdaran e diventa Capo di Stato Maggiore delle forze di terra. Nel 1994 diventa comandante della Forza basij e fonda l’intelligence dei basiji allo scopo di allungare la mano dello spionaggio interno e del controllo capillare sulla società iraniana, soprattutto sui giovani e sulle donne. Passa poi al comando della Guarigione Khatam al-Anbiya dei pasdaran e così entra a far parte del più importante conglomerato economico del Paese. Nella rivolta studentesca del luglio 1999, nonostante Qalibaf fosse comandante delle Forze Aeree, partecipa con particolare zelo alla repressione sanguinaria. È lui a vantarsi di aver scritto, insieme a Qassem Soleimani, una lettera minacciosa a Khatami che tentennava a reprime le proteste. Qalibaf con fierezza rivendica: “…Eravamo nelle strade per sedare le proteste. Scendevamo in strada ovunque fosse necessario, e picchiavamo le persone con i bastoni. Noi eravamo tra coloro che impugnavano quei bastoni”.
Qalibaf si reputava onorato di far parte dei picchiatori, soprattutto rivendicava i pestaggi dei simpatizzanti di Massuod Rajavi. Dopo la feroce repressione degli studenti avvenuta nel ’99, Qalibaf diventa l’anno successivo comandante delle forze di sicurezza statali e crea l’unità repressiva della polizia, la famigerata 110, e nel 2002 implementa il piano per la sicurezza morale. Nel 2015 diventa sindaco di Teheran, carica che mantenne per 12 anni, durante i quali fu coinvolto in molti scandali e corruzione.
Con la nomina nel 2018 a capo dell’apparato della Giustizia di Ebrahim Reisi, uno dei principali responsabili del massacro di oltre 30mila prigionieri politici avvenuto nell’estate del 1988, ed ora nel 2020 con la nomina di Mohammad Bagher Qalibaf a capo del majlès, il cerchio dell’assolutismo del regime va chiudendosi. Qualche giorno fa, il 17 maggio, Ali Khamenei ha parlato della futura formazione di un governo “giovane e devoto”. I tre poteri di uno Stato e la loro separazione, sebbene nella Repubblica islamica siano solo fittizi, procuravano comunque problemi. Ora il regime iraniano, immerso nelle sue crisi più acute e spaventato dalla rivolta dell’esercito della fame, chiude la guardia e si prepara all’ultima battaglia. Il regime, costretto, percorre l’ultimo tratto verso l’assolutismo, per congelare il fallimento politico, economico e sociale. La dittatura teocratica al potere a Teheran dall’11 febbraio 1979 alla fine e di nuovo si troverà di fronte il suo nemico principale: la popolazione iraniana e la sua resistenza organizzata.
Aggiornato il 04 giugno 2020 alle ore 10:05