La “crisi pandemica” non rallenta il terrorismo di Boko Haram

Nonostante il grande impegno internazionale dedicato a fronteggiare la furia nevrotica del gruppo jihadista di matrice nigeriana, Boko Haram (tradotto: l’istruzione occidentale è proibita), le azioni terroristiche nell’area non tendono a diminuire.

Nel nord del Camerun, in questi ultimi mesi, centinaia di famiglie abitanti al confine con la Nigeria, hanno dovuto abbandonare i propri villaggi, tra questi, Akhada, Mandaka, Koza, Hidoua, a causa delle azioni violente di gruppi armati legati al terrorismo nigeriano, per rifugiarsi in aree più interne. Ma circoscrivere la lettura di quanto accade a banali, anche se drammatiche, azioni terroristiche, limita la comprensione della complessa situazione di instabilità sociale che il Camerun sta vivendo da alcuni anni.

È di questi ultimi giorni un’illuminante inchiesta, rivelata anche dal quotidiano francese Le Monde, resa nota con grande “sofferenza” governativa, che svela il coinvolgimento di membri dell’esercito camerunense, in sommarie condanne capitali ai danni di connazionali accusati di collaborazionismo con i gruppi jihadisti legati alla rete di Boko Haram (BH).

Nel 2015 alcuni militari dell’esercito regolare del Camerun hanno ucciso alcune ragazze ed i loro bambini, perché sospettate di favorire, anche con azioni di spionaggio, i jihadisti di Boko Haram.

Nel dossier giudiziario dell’inchiesta, risulta che il “pretestuoso pseudo processo” si è svolto nel villaggio di Yaoundé. L’inchiesta, è partita da un video, postato nel 2018, rintracciabile sui siti internet locali, che ha suscitato notevole scalpore a causa delle accuse di tradimento che i militari addebitavano alle donne e la conseguente cruenta esecuzione. Non indugiando sulla descrizione del video, il “teatro” è un’area all’estremo nord del Camerun, delimitata da steppe pianeggianti e da colline caratterizzate da campi terrazzati; il periodo è tra marzo e aprile 2015; le donne furono arrestate lungo il confine con lo stato nigeriano di Borno, semi controllato da jihadisti e infestato da contrabbandieri. Le ragazze con i loro figli, erano state lasciate in quella zona, secondo i militari dopo un conflitto tra i governativi ed i terroristi, e quindi accusate di avere raccolto informazioni sulla popolazione, poi rivelate ai miliziani di Boko Haram. Le donne non hanno avuto tempo di giustificarsi, perché bendate e uccise, insieme ai loro figli, da tre soldati camerunesi che platealmente applicano l’auto attribuito ruolo di “giustizieri”, con freddezza e apparente lucidità.

Queste immagini pubblicate “faticosamente” tre anni dopo su Internet, hanno causato indignazione a livello internazionale, svelando il complesso scenario che ormai distingue con difficoltà chi è dalla parte dei regolari governativi e chi fa terrorismo.

La zona nord del Camerun è considerata come una area sicura e di approvvigionamento per i leader del gruppo salafita jihadista; il Camerun, dopo la Nigeria, è diventato uno Stato soggetto ad attacchi terroristici di matrice “BH”. Paul Biya, ex presidente camerunense, nel maggio del 2014, durante una sua visita ufficiale a Parigi, dichiarò che avrebbe usato qualsiasi mezzo per stroncare ogni azione terroristica di Boko Haram sul territorio nazionale; per risposta qualche tempo dopo, Abubakar Shekau, leader violento ed eccentrico del gruppo di Boko Haram, dichiarò che avrebbe creato in Camerun quello che esiste nel nord della Nigeria, cioè un “campo” di violenze, uccisioni, rapimenti e distruzioni, fuori dal controllo della polizia nazionale.

Questa minaccia ha condotto il governo camerunense ad organizzare una difesa militare fatta da gruppi di antiterrorismo con elevate qualità ispettive e di intervento rapido; tutto questo enorme dispiegamento di energie e di forze militari, anche mercenarie, è sotto la supervisione di ex soldati israeliani.

Tuttavia nonostante il grande impegno, finalizzato a contenere gli attacchi di “BH”, che spesso è coadiuvato dagli ex jihadisti dell’Isis, è estremamente difficile e macchinoso.

Come accade in tutta l’area del Sahara-Sahel, sugli indefiniti scenari dei campi di battaglia, compaiono attori eterogenei, sia nella appartenenza nazionale, che negli armamenti, che nell’inquadramento militare; oltre gli israeliani su detti, si trovano anche mercenari sia occidentali che africani, come anche i sempre più diffusi “gruppi civili di autodifesa”. Gli armamenti passano da ordigni artigianali e frecce avvelenate, come a sofisticate armi e droni armati notoriamente in dotazione ai jihadisti.

I gruppi civili di autodifesa, denominati anche “comitati di vigilanza”, sponsorizzati anche da partiti politici, frequentemente si sostituiscono all’esercito regolare, sia a scopo di difesa locale, ma anche per approfittare, dell’autorità semi riconosciuta, per “saldare” questioni politiche e spesso personali, anche se tali atteggiamenti amplificano e si allineano alle violenze perpetrate dai jihadisti, ponendo i paramilitari sullo steso piano dei terroristi.

Martedì, fonti governative nigerine hanno annunciato che nei pressi del villaggio di Toumour, regione di Diffa, nel sud-est del Niger, oltre 50 miliziani di Boko Haram sono stati “neutralizzati” nel corso di un combattimento con le forze governative. Risulta che i jihadisti di Boko Haram erano dotati di circa 20 veicoli attrezzati con armi pesanti, con i quali hanno attaccato un check point militare a Toumour. La reazione dell’esercito regolare, coordinato dalla Forza Barkhane, ha respinto l’attacco terroristico; i jihadisti erano dotati anche di “elementari” droni commerciali di fabbricazione cinese CH-3 (ben descritti da Vincent Foucher del Cnrs, National Center for Scientific Research), in dotazione ai “colleghi” nigeriani.

La pandemia da Covid19, non sembra fermi le azioni terroristiche; ma nemmeno la strategia di aiuti finanziari del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, diretta ad affrontare il coronavirus in Africa, sembra valutare appieno il grado di disgregazione sociale esistente e la garanzia che tali investimenti-prestiti, possano andare a sorreggere il precario sistema sanitario africano nell’esplosiva crisi pandemica.

Aggiornato il 20 marzo 2020 alle ore 12:37