Trump, una politica estera da Nobel

Coerente alle promesse elettorali, Donald Trump è riuscito a portare a termine la negoziazione del trattato di pace con i talebani che comporterà il progressivo ritiro delle ingenti forze militari presenti in Afghanistan dal 2001. Ancora una volta il presidente Trump ha dimostrato di voler spegnere i conflitti invertendo un trend che aveva caratterizzato i suoi predecessori di cui uno, inspiegabilmente alla luce dei risultati, è stato insignito del premio Nobel per la pace. L’accordo raggiunto a Doha tra Stati Uniti e talebani, grande assente il governo afgano, alla presenza del segretario di stato americano Mike Pompeo, prevede, infatti, una prima riduzione delle truppe statunitensi a 8.600 entro 135 giorni dalla firma per giungere al completo ritiro di tutti i 12mila soldati presenti nel Paese entro 14 mesi.

Il testo prevede l’immediata apertura di un tavolo di pace tra i militanti islamisti talebani e il governo afgano. Da parte talebana l’accordo è stato firmato dal capo politico Abdul Ghani Baradar e Trump, per raggiungere l’obiettivo di porre fine ad più lungo conflitto cui abbiano mai partecipato gli Usa, si è scontrato duramente con i propri vertici militari. Per il presidente americano si tratta di una rischiosa scommessa che si basa sul convincimento che l’organizzazione abbia una struttura gerarchico-funzionale tale da poter garantire la disseminazione degli ordini che in questo caso costituiscono la traslazione degli impegni presi a Doha da far rispettare con l’autorevolezza dei vertici presenti alla firma.

Il problema ora sopravverrà per i restanti contingenti che fanno parte dell’operazione Resolute Support dal 2015 operante in Afghanistan in sostituzione  della precedente missione Isaf con compiti di addestramento e assistenza. Una componente essenziale è costituita dal contingente italiano che ha la responsabilità del TAAC-W (Training Advise Assist Command West) di Herat con una forza di 800 uomini, considerata la soglia minima non comprimibile per non compromettere la sicurezza del personale. Inglesi e tedeschi sono presenti con contingenti di circa 1000 militari. Comprensibile anche ai non addetti ai lavori che ridurre all’improvviso una forza militare internazionale di 12mila presenze in un territorio ostile comporta rischi imprevedibili.

La Nato, organismo da cui dipende l’operazione, sicuramente rivedrà il concetto strategico della missione e valuterà la riduzione se non il ritiro dei contingenti a seguito della valutazione dell’andamento del processo di pace obiettivo dell’accordo. Trump, sotto la cui presidenza è bene ricordare che non è sorto un solo conflitto nel mondo, ha confermato il suo intendimento di sganciare, ove ne esistano le condizioni, il proprio strumento militare ma lo scenario che ora si pone davanti alla comunità internazionale presenta sicuramente incertezze a partire proprio dal governo afgano, che pare avere già contestato uno dei punti dell’accordo riguardante la liberazione di circa 5mila detenuti talebani.

Il dato inconfutabile comunque è che Trump, dosando con abilità deterrenza e distensione, minaccia dell’uso della forza e abilità negoziale, è riuscito a non coinvolgere il suo Paese in alcuna nuova guerra. Sta cercando di gestire al meglio i conflitti ereditati e dove ha potuto si è disimpegnato, talvolta con disappunto degli alleati, come ad esempio in Siria. Risolta con risolutezza la crisi con la Corea del Nord, piani sono in corso di sviluppo per lasciare anche la Corea del Sud. In Iran, uscendo dall’accordo sul nucleare, si è discostato dalla politica europea e  conduce la partita da solo. Se viene superata la linea di tolleranza che si è ideato colpisce i responsabili e gestisce le conseguenze con il dialogo. Preferisce agire con le sanzioni economiche o mostrando i muscoli  senza però ricorrere mai alla guerra, facendo rivivere agli Stati Uniti un periodo pacifista cui non si assisteva dai tempi di Eisenhower.

Gran parte delle spese militari sono indirizzate all’implementazione del settore spaziale, della cyber war e dell’intelligence. Trump però richiama troppo l’immagine del brasseur d’affaires, non è simpatico ed è considerato anche un po’ rude, motivi validi per non essere candidato al premio Nobel per la pace al pari di altri personaggi dotati di più appeal. Speriamo, pertanto, che possa meritare per i risultati ottenuti sul campo almeno il Premio ad honorem.       

Aggiornato il 02 marzo 2020 alle ore 14:46