Studenti uccisi in Sudan, il ruolo dei cecchini Janjawid

I difficili accordi sottoscritti la settimana scorsa, tra i militari e i civili, per la gestione transitoria del governo del Paese, si sono impantanati a causa della pressione esercitata delle proteste dei cittadini, degli studenti e delle associazioni dei professionisti, che stanno subendo l’impatto violento dei paramilitari del famigerato gruppo “Forza di Supporto Rapido”.

Dopo la deposizione del presidente Omar al-Bashir, dell’11 aprile 2019, al potere dal 1989, ogni tipo d’accordo, di negoziato, d’intervento, ogni pressione internazionale, ogni promessa e la generosa erogazione di aiuti finanziari, quasi a fondo perduto, finalizzati a placare, soprattutto, le pretese dei militari, si liquefa sotto la convinzione che solo la “forza può stabilire un equilibrio” in un contesto sociologico complesso come quello sudanese, ma similmente, anche come quello centro nord africano.

Lunedì 29, durante una manifestazione di protesta nella città di Al-Obeid, nel Nord Kordofan, scaturita dalla cronica penuria di pane e carburante, cinque studenti liceali ed un manifestante sono stati uccisi e più di 60 dimostranti sono stati feriti; le pallottole sono partite da edifici limitrofi nei quali erano appostati alcuni cecchini sembra appartenenti alla Rapid Support Forces (Rsf). Questi omicidi denotano un cambiamento importante nella strategia “offensiva” dei Militari contro i manifestanti, in quanto l’uso dei cecchini o “sniper” cambia molto la percezione della morte nei testimoni di tali uccisioni. Il cecchino non ha un ruolo devastante o determinante nell’“economia” della battaglia, in quanto non produce perdite consistenti, ma suscita un effetto psicologico demolente.

I movimenti di protesta che fino ad ora hanno visto in faccia i loro aggressori, con “l’entrata in giuoco” dei cecchini, la ribellione diventa un “lotteria della morte”. In effetti nei media dell’“area” ha fatto scalpore l’assassinio degli studenti, sia perché definiscono che: “Uccidere uno studente è come uccidere la nazione”, sia perché “l’effetto lotteria del cecchino” fa subentrare paure della morte diverse; una psicosi del “luogo affollato”, molto più deterrente, psicologicamente, di attacchi armati indiscriminati e palesi.

Nonostante i morti di lunedì 29 luglio, martedì 30 a Khartoum sono proseguite le proteste, durante le quali gli studenti hanno manifestato nuovamente in divisa; tali situazioni hanno indotto le autorità sudanesi, il Supremo Consiglio Militare in questo caso, a decidere la chiusura di tutte le scuole, comprese le università, da mercoledì 31 luglio e dichiarando che così resterà “fino a nuovo avviso”, come riporta l’agenzia di stampa ufficiale Suna. Il preoccupante e ambiguo annuncio “piomba” tra le centinai di studenti che da due giorni contestano e piangono per la morte dei loro compagni, che secondo il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef), avevano dai 15 ai 17 anni. La stessa Unicef, martedì 30 luglio, ha esortato le autorità a “indagare e consegnare alla giustizia tutti gli autori di violenza contro gli adolescenti”. I dimostranti e l’Associazione dei Professionisti Sudanesi (Spa) additano come artefici dell’ennesima strage la temuta milizia paramilitare dei Rapid Support Forces (Rsf), guidata dal più potente capo militare del Paese, Mohammed Hamdan Daglo; ma i veri responsabili dell’uccisione degli studenti sarebbero gli sniper del gruppo dei Janjawid (milizie artefici anche delle atrocità nell’ovest del Darfur), ingaggiati proprio da Mohammed Daglo.

Il generale Abdel Fattah al-Burhane, capo del Consiglio militare di transizione, ha affermato, palesando un dubbio stupore, che “uccidere civili pacifici è un crimine inaccettabile che non dovrebbe rimanere impunito” (fonte Al-Rayaam e Suna). Molto spesso gli atteggiamenti della “politica africana” manifestano dei paradossi fisiologici dovuti a consuetudini comportamentali che garantiscono, per esempio, il “colpo di Stato” come un avvicendamento di potere “naturale”; la situazione attuale presente in Sudan, è un ulteriore “apparente” paradosso (lettura relativistica), quello di un regime militare al potere, come da recenti accordi fatti con la rappresentanza civile, che tuttavia non controlla un apparato paramilitare pseudo statale determinante per una “supervisione” dello Stato.

La chiusura delle scuole e delle università con lo scopo di impedire agli studenti e alla società civile di aggregarsi e quindi di manifestare, accompagnata al decretato di coprifuoco notturno imposto lunedì 29, non fa altro che palesare una tendenza politica che di democrazia non ha nulla, considerando che tali regimi rappresentano, quelle che definisco “antidemocrazie naturali”.

È verosimile che anche l’indagine chiesta dall’Onu, circa l’assassino degli studenti, difficilmente potrà avere una risposta certa data la responsabilità trasversale e “transitoria” di chi gestisce ora il potere.

Il generale Al-Burhane, ha confermato, martedì alla televisione nazionale, che: “Tutti i progressi dei negoziati con l’Alleanza per la Libertà e il Cambiamento (Lra), sono da considerare nulli”; aggiungendo che l’annullamento servirà “per cancellare ciò che è stato concordato e tenere elezioni in nove mesi”; asserendo, inoltre, che le votazioni si svolgeranno sotto la “supervisione regionale e internazionale”.

Ulteriore dimostrazione (ma non c’era bisogno), di quanto possano valere accordi, anche con risonanza ed interessi internazionali, tra militari e civili in tali contesti sociologici e “apolitici”.

Aggiornato il 01 agosto 2019 alle ore 14:55