Albania 2019, un passo avanti e uno indietro

Dal crollo del regime comunista nel 1990 e per circa un paio di decenni, la politica – qualsiasi definizione si possa dare ad essa – si è trasformata nella vera religione degli albanesi. Vissuta quasi sempre dalla massa con pathos da ultrà, le sue multiple espressioni colorate erano probabilmente una comprensibile reazione al pensiero unico che aveva appiattito le coscienze ed annientato il pensiero critico di almeno tre generazioni.

La forte contrapposizione tra il Partito Democratico, centrodestra, primo partito di opposizione ed il Partito Socialista, centrosinistra, in parte continuazione di una frazione della precedente casta politica (pentita e rinsavita o semplicemente pragmatica?), ha mosso a lungo gli animi degli albanesi, molto di più di quanto possano fare da questa parte dell’Adriatico tutti i derby calcistici italiani messi insieme. Tutto questo in uno scenario apparentemente atipico per l’osservatore occidentale, ma del tutto connaturale per i paesi dell’Est di allora: il centro-destra quale spontanea forza di opposizione e rappresentante delle forze politiche liberali e il centro-sinistra come vera forza conservatrice (!). L’unica cosa che le accomunava era l’Europa, come slogan politico che condensava il sogno genuino di ogni albanese onesto.

In quel periodo dalla bussola socio-politica disorientata scaturiva comunque una destra ed una sinistra, c’era passione (spesso anche troppa …), idealismo quasi ingenuo, forte desiderio di riscatto storico, grande voglia di andare avanti e recuperare il tempo perduto, manifestazioni spontanee anche violente, elezioni dall’esito a dir poco incomprensibile, omicidi politici, tanta emigrazione e malavita ben organizzata.

Poi, verso la fine del primo decennio del nuovo millennio, sotto un nuovo tappeto sociale dove si ravvisavano i contorni di un debole capitalismo, a tratti sociale e a tratti predatorio, più appariscente, più intellettualoide globalista, successe probabilmente la cosa più normale: la bussola socio-politica ritrovò il suo Nord. Il Partito Democratico di Berisha (padre-padrone incontestato del suo Partito, bravo cardiologo dai tratti caratteriali poco incline alla tolleranza, educato nel e dal pregresso regime) comincio a fare il centro-destra conservatore, mentre il nuovo Partito Socialista di Edi Rama (eclettico intellettuale-pittore-cestista, fautore della cromoterapia, che dipinse con colori sgargianti le facciate grigie dei vecchi edifici di Tirana e cambio dal rosso al viola il colore del logo del suo Partito, ragazzo di mondo, nato politicamente sulle ceneri simboliche del predecessore Fatos Nano, un economista intelligente e un po’ machiavellico), comincio a parlare il linguaggio del centro-sinistra europeo.

Ma nel frattempo, un’altra “stella” politica era nata: il Movimento Socialista per l’Integrazione (MSI), un partito dallo stampo social-democratico, fondato da un ex-atleta sollevatore di pesi, Ilir Meta, ora Presidente della Repubblica. Da quel momento (era il 2005, anno della loro entrata nel Parlamento), nel panorama sociale albanese iniziò gradualmente a cambiare qualcosa di importante, qualcosa che il lettore italiano può capire benissimo se prendiamo in prestito la retorica poetica gaberiana (chiedendogli scusa del disturbo). “Ma cos’è la destra? Cos’è la sinistra?”. Ed è sostanzialmente da allora, da quando un partito da 10% di preferenze che passava serenamente dalla destra alla sinistra, in nome della stabilità del paese, diventando il vero ago della bilancia della governabilità del paese, che l’albanese medio smise di litigare ferocemente di politica e comincio a preoccuparsi di casa sua.

Potrebbe, quindi, essere questa la chiave di lettura di ciò che succede oggi in Albania: una piattaforma basata da una parte su un difficile “mènage a trois”, una ruota politica che a quanto pare non gira sempre sotto la spinta di qualche forma di “gentlemen agreement”, e dall’altra parte sulla disaffezione dell’albanese medio sempre più disilluso dalla politica e stufo dalla corruzione capillare.

Su questa piattaforma si aggiungono certamente una serie di elementi che negli ultimi 10 anni hanno avuto un ruolo significativo. Primo fra tutti, la crisi globale in generale e quella europea in particolare, ha avuto un forte impatto sull’economia del Paese. Le rimesse di circa 850mila immigrati albanesi, molti dei quali hanno ancora legami con il Paese di origine, sono un’importante risorsa economica che in questi anni si è drasticamente ridotta. La crisi europea, dall’altra parte, segno di debolezza del progetto della stessa Europa, ha rallentato l’adesione del paese alla Ue, smagrendo così anche il sogno euro-albanese, tanto ipertrofizzato per scopi elettorali da tutti i governi degli ultimi 15 anni.

Altro elemento, questa volta di segno nettamente positivo, è stato l’indipendenza del Kosovo nel 2008. Un secondo stato albanese nei Balcani, appoggiato sia dalla Ue che dagli Usa e naturalmente legato alla madre Albania, ha aumentato il peso specifico di quest’ultima nelle relazioni con i paesi della regione, paesi in gran parte non particolarmente storicamente amichevoli.

Un ulteriore elemento importante da considerare rimane la ormai storica influenza americana nel paese, tanto forte da dar fastidio anche alla Ue. Notoriamente filo-americani, dopo la elezione di Trump, gli albanesi (sia quelli dell’Albania, che quelli del Kosovo) hanno temuto che la nuova politica sovranista a stelle e strisce li abbandonasse alla corrente crescente espansionistica di Putin, creando una certa insicurezza tra i politici. Tali timori, tuttavia, non sembrano fondati e questo lo conferma anche la nuova base militare americana che continua a costruirsi nel sud dell’Albania, molto vicino al percorso del gasdotto Tap che percorre circa 250 km lungo la terra e il mare albanese.

In questo scenario, quindi, che valore hanno le proteste di queste ultime settimane in Albania?

Il movimento spontaneo degli studenti universitari, che ha dato inizio (di nuovo) alle proteste, ha identificato una delle radici dei problemi sociali, ovvero la grave crisi del sistema universitario, segno di asfissia della stessa classe intellettuale albanese. Il loro movimento spontaneo, per carenze organizzative, sembra essere stato in gran parte annientato o cavalcato dai soliti intrusi e opportunisti, lascando la scena ad una massa di persone, per certi versi, abbastanza curiose. Gran parte di quelli che protestano attualmente in Albania, almeno a giudicare dalle immagini delle cronache tv, sembrano avere lo stesso idealismo dei mercenari e la stessa spontaneità delle prefiche (le donne pagate per piangere nei funerali di certi paesi balcanici e non solo). Nel frattempo, i deputati dell’opposizione (Pd e Msi) si dimettono letteralmente dal Parlamento, abbandonando irresponsabilmente il loro mandato e creando un brutto precedente nella breve storia della fragile democrazia albanese.

Tutto questo sembra veramente assurdo, masochistico e persino stupido, a pochi mesi dall’inizio della stagione turistica, dopo diverse stagioni veramente positive dopo le quali gli albanesi onesti che vogliono lavorare e vivere nella loro terra hanno iniziato a credere che potevano vivre dignitosamente offrendo al mondo la possibilità di godere della bellezza infinita di un Paese meraviglioso. Ma la madre dei politici è forse sempre incinta…?

Aggiornato il 05 marzo 2019 alle ore 14:54