Il fascino del Califfato e i jihadisti di ritorno

La “spaccatura” sociologica e nazionale apertasi nel nord dell’Iraq dopo la deposizione e l’eliminazione di Saddam Hussein, ha dato la possibilità a seconde figure (tendenzialmente ai margini) della società siro-irachena e dell’estremismo islamico già organizzato, di poter realizzare il sogno del Califfato nel rimpianto della fine dell’Impero Ottomano, nel proseguimento del mal interpretato significato del Jihad (el-jihadul açghar), e cavalcando, al contrario, quanto le memorie del libanese Samir Kassir hanno rivelato nel suo più famoso scritto dal titolo ”Il Manifesto dell’infelicità araba”.

Il fascino del Califfato è stato abilmente coltivato dal suo portavoce/Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi (Dr. Ibrāhīm Abū Du^ā^) che ha assunto questo nome “di ruolo“ attingendo, strategicamente e con spirito “commerciale”, al richiamo religioso, con riferimento a Abu Bakr (632-634) primo califfo “Ben Guidato” successore di Maometto e Al-Baghdadi, come richiamo politico riferito a Bagdad capitale Abbasside (Medinat al-salām – Città della Pace). Il Califfato di Al-Baghdadi è stato un polo di attrazione per molte tipologie di individui, buona parte di essi hanno trovato in quel contesto motivazioni alla loro esistenza, come risulta anche dalle recenti testimonianze delle “donne dell’Isis” fuoriuscite dalla zona siriana di Deir ez-Zor, le quali affermano, brevemente, che i soldi, le spose e le schiave del sesso, erano i fondamenti della fascinazione califfale per buona parte dei jihadisti. Inoltre l’esperienza durissima dei combattimenti, le atrocità quotidiane, l’indottrinamento jihadizzante e la percezione della morte come una traguardo per raggiungere il “piacere”, hanno strutturato una società complessa e non socialmente compatibile escludendo gli ambiti fondamentalisti.

La “popolarità” dello Stato Islamico ha esercitato anche una forte attrazione su soggetti emarginati, musulmani e anche neo convertiti, che hanno visto nei reduci del jihad degli eroi da imitare e che percepiscono la loro adesione alla “causa” come un riscatto sociale e l’individuazione definita della propria identità. L”annichilimento” dello Stato Islamico ha gettato i jihadisti dell’Isis nella condizione di dover trovare una via d’uscita alla  prospettiva di passare il resto della vita o in carcere o in perenne fuga, creando, già da tempo il fenomeno dei returnees, cioè dei foreign terrorist fighters che ritornano negli Stati di provenienza. La tipologia dei  returnees possiamo generalmente individuarla nelle seguenti figure: l’opportunista, cioè colui che solo per “godimento” proprio e occasionalmente si è arruolato nell’Isis con l’obiettivo di un appannaggio, di possedere schiave e di poter ostentare onnipotenza nei riguardi dei miseri civili; il deluso che vedeva nel Califfato la sua rivincita personale, mascherata dal radicalismo e che rientra in Patria con frustrazioni più spiccate e maggiormente radicalizzato; il disturbato psichicamente, molto spesso emarginato dall’origine, tutti vivono un cronico conflitto esistenziale e sono soggetti di facile plagio; ricordando che tutte queste molteplicità di returnees portano con se marcati segni di post traumatic stress disorder, che li rende estremamente pericolosi e poco prevedibili, a meno che non palesino apertamente la frequentazione di ambienti radicalizzati e la vicinanza al salafismo jihadista.

A questi va aggiunta la figura più pericolosa che potremmo identificarla come una persona lucida, riflessiva e attendista che ha avuto importanti ruoli nell’ambito dell’Isis e in associazioni terroristiche legate. Dei circa 130 jihadisti partiti dall’Italia per l’Iraq e Siria, ricordando solo Lara Bombonati, dopo la conversione del 2011, Khadija, ed il marito Francesco Cascio (forse Muhammad) morto in Siria, ad oggi sono rientrati in Italia un decimo, molti sono morti in avvenimenti di guerra ed azioni terroristiche. Tale fenomeno in Italia è marginale, il Belgio, la Francia, il Regno Unito, toccano percentuali di rientro dei foreign terrorist fighters intorno al cinquantacinque %, ma anche la Danimarca e la Svezia hanno percentuale di returnees ai livelli su citati, e questo dato sui paesi scandinavi fa molto riflettere. Oggi le sfide da affrontare sul campo dei foreign terrorist fighters di ritorno sono essenzialmente due: la prima e quella di azioni di “intelligence” nei confronti dei gruppi terroristici religiosamente radicalizzati e legati al livello internazionale, l’altra è quella di creare dei sistemi di controllo “sociale” che frenino il processo di radicalizzazione che sempre più spesso interessa gruppi di musulmani, prevalentemente localizzati in contesti chiusi e marginali alla collettiva.

Aggiornato il 22 febbraio 2019 alle ore 11:49