Compensando alla complice indifferenza della politica e delle istituzioni, è lo sport a sfidare l’arroganza degli emiri del Qatar. Riku Riski, calciatore finlandese, ha annunciato che non parteciperà all’incontro previsto a Doha tra la sua nazionale e la Svezia in segno di protesta contro le violazioni dei diritti umani perpetrate a danno della manodopera straniera. Negli ultimi anni, si sono infatti registrate decine di vittime e centinaia di feriti tra i lavoratori, provenienti soprattutto da Paesi asiatici, nei cantieri dove si costruiscono gli stadi e le infrastrutture del Qatar che dovranno ospitare i Mondiali di calcio nel 2022.
Alle condizioni di sicurezza a dir poco precarie, vanno ad aggiungersi gravi costrizioni alla libertà personale e il mancato pagamento dei salari. Per soddisfare le richieste dell’International Labor Organization (Ilo), l’agenzia Onu che si occupa di tutela del lavoro, il regime di Doha aveva annunciato l’introduzione di un provvedimento volto a porre fine alla cosiddetta “kafala”, il sistema che non consente agli operai stranieri di lasciare il Qatar senza il consenso del proprio “padrone”. Tuttavia, la riforma non è ancora entrata in vigore, riporta Amnesty International, e non è dato sapere quando sarà effettivamente applicata. Amnesty International continua a denunciare anche il comportamento delle società di costruzione legate al regime, le quali, malgrado i richiami ricevuti e le promesse effettuate, non intendono procedere al pagamento della manodopera, con gravi conseguenze sulla vita dei lavoratori e delle rispettive famiglie.
Si tratta di fatti noti e arcinoti, che finora non hanno condizionato le relazioni dei governi occidentali con il Qatar e hanno ancor meno condotto alla revoca dell’assegnazione al Qatar del titolo di Paese ospitante della prossima Coppa del Mondo. Il clan Al Thani pensava dunque di poterla fare franca fino alla fine, contando sul silenzio delle varie classi dirigenti, più interessate ai risvolti affaristici che a quelli legati ai diritti umani. Come un fulmine a ciel sereno, è però giunto il gran rifiuto di Riku Riski. Quello del calciatore finlandese è un gesto di straordinaria di rilevanza, poiché riposiziona etica e valori al centro del campo di gioco, quali elementi connaturati a una manifestazione sportiva. Inoltre, la sua decisione rischia di stabilire un precedente che alla corte di Doha viene certamente visto con molta apprensione. Il rischio di un effetto domino di rifiuti è reale e potrebbe rivelarsi talmente ampio da determinare, da qui al 2022, il fallimento organizzativo dei Mondiali in Qatar.
Non a caso, il presidente della Fifa, Gianni Infantino, presentendo l’eventualità di un’escalation delle fibrillazioni, sembra aver recentemente avviato un’operazione di smarcamento. In occasione del Globe Soccer Award tenutosi ad Abu Dhabi, Infantino ha ventilato la possibilità di anticipare al 2022 l’ampliamento, da 32 a 48, del numero delle squadre partecipanti al Mondiale previsto nel 2026, precisando che in tal caso “disputare il Mondiale solo in Qatar appare difficile” e che andrà quindi coinvolto “qualche Paese in più in modo da poter offrire le infrastrutture necessarie ad ospitare un maggior numero di squadre”. Un modo diplomatico ed elegante per avviare il processo di graduale ridimensionamento del ruolo del Qatar come Paese ospitante. Per la Fifa sta infatti diventando sempre più imbarazzante accostare il proprio marchio al regime di Doha e non solo per la questione della schiavitù dei lavoratori stranieri. Il Qatar è il principale sostenitore della rete transnazionale estremista dei Fratelli Musulmani, che ha prodotto Al Qaeda, Isis e il fenomeno jihadista nel suo complesso.
Per gli emiri del clan Al Thani sarebbe molto semplice uscire da tale impasse: sarebbe sufficiente normalizzare la condizione della manodopera straniera e interrompere il finanziamento al terrorismo. Dove finora non sono riuscire le pressioni della politica internazionale, potrebbe riuscirci lo sport.
Aggiornato il 10 gennaio 2019 alle ore 11:22