La Libia, ovvero un Paese, tre macroregioni, due governi di natura istituzionale, uno tribale. Centoquaranta tribù presenti, oltre duecentotrenta milizie sul terreno distribuite tra le grandi città che vanno dall’interno fin sulla costa dalla quale l’Italia è a poco più di qualche ora di mare. Un terreno che rappresenta un vero e proprio forziere di ricchezza sotto forma di petrolio che tutte queste variegate comunità vorrebbero poter determinare, piantandoci sopra la propria bandiera. Senza considerare la presenza delle organizzazioni terroristiche che in questa situazione di estrema confusione trovano una condizione estremamente favorevole.
Si è parlato di Stato fallito, fallito nel tentativo di riforma, nella mancata individuazione di una leadership in grado di riorganizzare le forze politiche, nell’obiettivo di arginare il crescente stato di tensione sociale e di violenza che si accompagna ai grandi business delle migrazioni africane verso una Europa che gioca sempre il ruolo di eterna incognita. Un’Europa incapace di ogni decisione comunitaria, incapace di assumere una responsabilità nella gestione di tanti conflitti interni al Paese che si riverberano sulle politiche dei Paesi del Mediterraneo, e incapace di parlare una sola lingua che valga per i suoi Paesi membri.
Ma non è solo l’Unione europea la grande assente in questo teatro che assume i contorni indefiniti di una sostanza liquida, e che cambia forma, capacità penetrativa in ogni istante. L’Organizzazione delle Nazioni Unite che mai in Africa ha brillato per lungimiranza resta al palo, a guardare il Paese consumarsi nella rivolta, appoggiando un governo messo in piedi senza alcuna consultazione popolare, e offrendo un pessimo spettacolo circa la capacità diplomatica di definizione delle controversie con mezzi che siano diversi dall’intervento militare. Dopo gli ultimi disordini che hanno causato a Tripoli decine di morti tra i civili, ci si aspettava dal Governo di al-Sarraj una decisa azione di coordinamento delle milizie richiamate da Misurata. Ci si augurava una unificazione delle milizie nel quadro di un esercito unitario. Il risultato è che il governo non è riuscito ancora a garantire al Paese nordafricano né stabilità, né sicurezza, né una ripresa economica. È in questo quadro che si discute delle elezioni del prossimo dicembre, che dovrebbero riuscire a dare quella leadership unitaria a un Paese che sta sprofondando sempre di più sotto le sue macerie. In questo quadro si è mossa con fare poco diplomatico, ma molto scaltro vista l’assenza della Ue, la Francia, organizzando unilateralmente una conferenza con la presenza dei due leader governativi, del presidente del parlamento di Tobruk, Issa, e dell’esponente dei Fratelli Musulmani Khaled Al-Mishri, presidente del Consiglio di Stato ed eterno nemico di Haftar.
Proprio i Fratelli Musulmani, la stessa organizzazione cancro al pari delle altre organizzazioni del terrore militarizzate, che è stata dichiarata illegale in Egitto con la conferma di Al Sisi dell’inasprimento delle pene contro gli appartenenti alla Brotherood, e l’azione militare condotta bilateralmente da gli uomini dell’esercito egiziano e da quelli di Haftar ha di fatto segnato una alleanza militare e istituzionale che proprio l’Italia dovrebbe sfruttare per ricostruire la propria presenza e riposizionarsi in questo disastrato quadro politico che la vede al momento in posizione perdente. Per fare un esempio, la milizia Hamadein sponsorizzata da Doha è accusata di acquisizione sottobanco di armi ad alto potenziale distruttivo, cosa che ha portato alla rottura di diverse tregue a Tripoli.
Qatarileaks indica Doha come principale finanziatore dello studio di piani per alimentare la guerra civile in Libia, ed è stato provato un finanziamento continuativo alle milizie legate alla Fratellanza. Tra queste spicca la milizia Rahba oltre ad Hamadein stessa. Le milizie al servizio di al-Sarraj, sostenuto dalla comunità internazionale, potrebbero quindi essere foraggiate da una organizzazione terroristica devastante per il futuro della Libia, che sta vivendo una situazione analoga a quella dell’Egitto all’indomani della primavera araba che portò alla caduta di Mubarak. Presero il potere i Fratelli Musulmani, e fu il generale Al Sisi a dover trovare una soluzione per il popolo egiziano, ritornando all’ordine e alla lotta all’islamismo più subdolo e feroce tipico dei Fratelli musulmani, che in ogni zona del mondo sono fonte di instabilità, insicurezza, e fanatico integralismo.
Utilizzare i buoni auspici egiziani di Al Sisi (e quelli del presidente russo Vladimir Putin) è ad oggi l’unica possibilità per l’Italia di poter essere in prima linea al momento delle decisioni che potrebbero segnare per il nostro Paese una debacle energetica di dimensioni enormi, e una decisiva e sonora sconfitta definitiva sui temi del controllo della emigrazione africana e l’ordine nel Canale di Sicilia, a maggior gloria dello Stato francese che in un clima di assoluto e colpevole silenzio europeo si erge a unico Paese sensibile e amico dell’Africa, cercando di far dimenticare che la causa di questo disastro è targata Parigi.
Aggiornato il 07 settembre 2018 alle ore 12:29