Ogni volta che si affronta questo conflitto che dura da decenni e la ricerca di una soluzione, ci sono alcuni fatto che troppo spesso mancano, vengono ignorati, minimizzati, o distorti. In questo modo non solo si fa un disservizio alla Storia, ma si contribuisce a prolungare il conflitto, perpetuando presupposti fasulli e nozioni errate. Di cosa si tratta?
Fatto n. 1: ci sarebbe potuta essere una soluzione a due Stati già nel 1947. È esattamente quello che propose il Comitato Speciale per la Palestina (Unscop) riconoscendo la presenza di due popoli – e due nazionalismi – in un territorio governato temporaneamente dal Regno Unito. E l’Assemblea Generale dell’Onu sottoscrisse con forza la proposta dell’Unscop. La parte ebraica accettò pragmaticamente il piano, ma il mondo arabo lo rifiutò categoricamente.
Fatto n. 2: il 14 maggio 1948, giorno in cui Israele dichiarò l’indipendenza, estese un’offerta di amicizia ai suoi vicini arabi, come è chiaramente testimoniato dalle affermazioni e dai documenti fondatori. Anche quell’offerta fu respinta. Al suo posto, cinque eserciti arabi dichiararono guerra al nascituro Stato Ebraico, allo scopo di distruggerlo completamente. Malgrado i loro numeri e i loro arsenali fossero di gran lunga superiori a quelli degli ebrei, la loro impresa fallì.
Fatto n. 3: fino al 1967, la parte orientale di Gerusalemme e l’intera Cisgiordania appartenevano alla Giordania, non ad Israele. Se il mondo arabo avesse desiderato uno Stato indipendente palestinese con Gerusalemme come capitale, avrebbe potuto fondarlo in qualsiasi momento. Non solo ciò non accadde, ma non esistono documenti a dimostrare che se ne sia mai neanche discusso. Al contrario, la Giordania annesse il territorio allo scopo di averne il pieno e permanente controllo. La città fu trattata come luogo remoto, fu vietato l’accesso agli ebrei alla Città Vecchia, e le sinagoghe furono distrutte. Nello stesso periodo, Gaza era sotto il controllo militare egiziano. Neanche qui si parlò mai di sovranità per i palestinesi.
Fatto n. 4: nel maggio del 1967, i governi siriani ed egiziani minacciarono ripetutamente di distruggere Israele, chiedendo alle Nazioni Unite di ritirare i Caschi Blu presenti sul territorio. Le tratte marittime israeliani verso il porto di Eilat, nel sud del Paese, furono bloccate, e truppe arabe furono schierate in prima linea. Il risultato fu la Guerra dei Sei Giorni, guerra vinta da Israele. Avendo ottenuto il possesso della Striscia di Gaza, delle alture del Golan, della penisola del Sinai, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, Israele – tramite interlocutori - sondò il terreno con i suoi vicini arabi alla ricerca di un accordo di “terra in cambio di pace”. La risposta araba arrivò il primo settembre del 1967 da Khartoum in Sudan, dove era in corso il summit della Lega Araba. Il messaggio fu inequivocabile: “Niente pace, niente negoziati, niente riconoscimento di Israele”. Ancora una volta l’opportunità di porre termine al conflitto sfumò.
Fatto n. 5: nel novembre del 1977, il Presidente egiziano Anwar Sadat ruppe con l’intransigente consenso arabo. Si recò in visita presso la capitale di Israele, Gerusalemme, per incontrare i leader israeliani, rivolgersi al Parlamento e parlare di pace. Due anni dopo fu raggiunto un accordo, a dimostrazione degli sforzi intrapresi da Israele per porre fine al conflitto. Nei termini dell’accordo Israele – che, ricordiamo, all’epoca era governato dalle destre – restituì il controllo della penisola del Sinai, ricca di depositi petroliferi, insediamenti, basi aeree e di importanza strategica, in cambio della promessa di nuove relazioni con il Paese-guida del mondo arabo. Nel 1981 Sadat fu trucidato dai Fratelli Musulmani per la sua presunta perfidia, ma fortunattamente il suo lascito di pace con Israele perdura.
Fatto n. 6: nel settembre del 1993, Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) giunsero ad un accordo noto col nome di Accordi di Oslo. Anche in questo caso ci fu speranza di giungere ad una pace. Ma otto mesi dopo, il leader dell’Olp Yasser Arafat confermò i sospetti di molti quando venne fuori una registrazione effettuata durante una visita ad una moschea di Johannesburg in cui affermava che l’accordo non era altro che una tregua temporanea in attesa della vittoria finale.
Fatto n. 7: nel 1994, Re Hussein di Giordania, prendendo esempio dal Presidente egiziano Sadat, raggiunse un accordo con Israele, dimostrando ancora una volta la prontezza di Israele ad afferrare la pace, e la disponibilità a fare sacrifici territoriali quando appaiono leader arabi sinceri.
Fatto n. 8: tra il 2000 e il 2001, il Primo Ministro israeliano Ehud Barak, a capo di una coalizione di sinistra e con il supporto dell’Amministrazione Clinton, offrì ad Arafat un rivoluzionario accordo a due Stati, che includeva un coraggioso compromesso riguardante Gerusalemme. Non solo il leader palestinese rifiutò l’offerta, ma incredibilmente disse a Clinton che gli ebrei non avevano mai avuto alcuna connessione storica con Gerusalemme, non offrì una controproposta, e innescò una nuova ondata di violenza palestinese che portò ad oltre mille morti israeliani (fatte le debite proporzioni, equivarrebbe a più di diecimila morti italiani).
Fatto n. 9: nel 2008, tre anni dopo che il Primo Ministro Ariel Sharon decise unilateralmente di ritirare truppe e coloni da Gaza, per assistere poi alla presa di potere da parte di Hamas che distrusse così l’ennesima possibilità di coesistenza pacifica, il Primo Ministro Ehud Olmert si spinse ancora più in là di quanto aveva fatto Barak nel porgere un ramoscello d’ulivo all’Autorità Palestinese: la sua offerta di una soluzione a due Stati fu ancora più generosa di quella del suo predecessore, ma non ci fu risposta formale da parte di Mahmoud Abbas, il successore di Arafat. Un negoziatore palestinese disse poi pubblicamente che il piano israeliano concedeva l’equivalente del cento per cento delle terre disputate oggetto di discussione.
Fatto n. 10: nel 2010, in seguito ad una richiesta dell’Amministrazione Obama, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu acconsentì ad un congelamento della durata di dieci mesi della costruzione di nuovi insediamenti, come gesto di buona volontà per indurre i palestinesi a tornare al tavolo dei negoziati. Purtroppo, l’offerta fallì. I palestinesi non si fecero vedere. Al contrario, continuano ancora oggi con la strategia dell’incitamento; con i tentativi di aggirare Israele – ed i negoziati diretti – rivolgendosi invece alle organizzazioni internazionali; negando il legame che esiste da tempo immemorabile tra gli ebrei e Gerusalemme e per estensione, con l’intera regione; e continuando a versare vitalizi e supporto finanziario ai terroristi catturati ed ai familiari dei terroristi suicidi.
Non è ora di trarre le ovvie conclusioni da questi fatti, di riconoscere le tante opportunità perse per giungere ad un accordo per via di un costante rifiuto proveniente da una parte, e chiedere ai palestinesi, per un volta, di iniziare a dire di sì?
(*) Ceo dell’American Jewish Committee
Aggiornato il 09 gennaio 2018 alle ore 08:39