Il vero significato dell’America

In questi giorni stiamo assistendo ad una America che litiga rabbiosamente con se stessa, che sceglie narrazioni sempre più contrastanti del suo passato e del suo presente. Per ricordarci veramente di cosa vuol dire l'America – cosa che troppo spesso dimentichiamo, impegnati come siamo a bisticciare tra di noi – credo che chiederlo a chi è giunto qui da lontano potrebbe essere un utile esercizio.

Nel mio caso, è facile. Mia madre nacque nell’Urss sotto il dominio bolscevico. Assieme ai genitori ed a suo fratello fu tra i pochi fortunati che riuscì a partire nel 1929, prima che le porte si chiudessero del tutto. Non si sono mai guardati indietro. E come avrebbero mai potuto? Stalin regnò in maniera paranoica e utilizzò il pugno di ferro uccidendo milioni se non decine di milioni di persone innocenti nei gulag; il suo antisemitismo era maniacale e implacabile.

I quattro trovarono rifugio in Francia, o almeno così credevano.

Undici anni dopo, l’esercito della Germania nazista attraversò la cosiddetta invincibile Linea Maginot ed invase il Paese. A peggiorare le cose emerse il regime francese di Vichy, collaborazionista dei nazisti. La famiglia fu costretta a fuggire di nuovo, stavolta da un apparato di sterminio industriale. Alla fine, furono tra i pochi fortunati a riuscire ad ottenere i visti per gli Stati Uniti alla vigilia dell’attacco di Pearl Harbor, quando l’ingresso in quel Paese era quasi impossibile a causa di una politica sull’immigrazione molto restrittiva, anche per gli ebrei che fuggivano dall’Europa.

Mia madre, oggi 94enne, non dimenticherà mai il momento in cui dalla nave sui cui viaggiavano, la SS Exeter, iniziò ad intravedersi il porto di New York e la Statua della Libertà. Ma non si trattava di una crociera su di un battello turistico: era un segnale di benvenuto, offerto da una nazione che innalzava la fiamma della libertà a suo emblema duraturo. L’amore per l’America fu immediato. Non vacillò neanche per un istante. La vita non fu sempre facile o giusta, ma a mia madre e alla sua famiglia, a differenza delle loro vite precedenti, questo Paese aveva donato il regalo più inestimabile: un nuovo inizio, e una promessa di sicurezza e di opportunità. In quanto figlio unico mia madre mi assecondava spesso, ma una delle rare volte in cui riuscì a esprimere un sentimento di pura rabbia fu durante la guerra del Vietnam, quando io espressi delle critiche verso gli Usa. Non dimenticare mai – disse – che questo Paese ci ha protetti, ci ha dato un nuovo inizio, ed è l’ultimo faro di speranza per il mondo.

Mio padre, ora scomparso, era nato in Ungheria ed era cresciuto tra la Germania e l’Austria. Arrivò negli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale, a seguito di un difficilissimo percorso durato dodici anni, dall’ascesa al potere di Hitler nel gennaio del 1933 alla fine della guerra nel maggio 1945. Lui la pensava come mia madre. Va bene, il caffè lo facevano molto meglio in Europa e a differenza del calcio, il football americano non aveva alcun senso, per non parlare del baseball. Però gli Usa erano una terra unica al mondo, una terra per cui combattere, come egli fece, e con valore. Apprezzava questa nazione ogni singolo giorno. Anche lui sapeva cosa vuol dire avere negati i diritti più basilari, e capiva che non c’è nulla di più prezioso che possederli. A un certo punto i miei genitori capirono che l’America aveva anche dei difetti, e se ne accorsero a seguito di un viaggio che fecero da New York alla Florida, nel 1959. Mi ricordo che al loro ritorno non vedevo l’ora che mi raccontassero del loro viaggio nella terra delle palme e delle spiagge. E invece, non riuscivano a parlare d’altro di come erano rimasti allibiti di fronte al razzismo che imperversava a sud della Linea Mason-Dixon.

In quanto ebrei nell’Europa occupata dai nazisti, la segregazione istituzionalizzata gli era fin troppo familiare. Ma l’idea che l’America, che aveva sacrificato tanto per sconfiggere Hitler e le sue teorie razziale, potesse permettere ad alcuni Stati di applicarla, era inconcepibile. Eppure, a differenza della Germania nazista e dei suoi alleati, l’America era un cantiere in corso che alla fine deve rispondere ai propri cittadini. E perciò, la storica sentenza e le decisioni legislative che posero fine alla discriminazione razziale vennero salutate con gioia. Ancora una volta, la fede incessante dei miei genitori in questa terra fu giustificata.

Più tardi, vidi l’essenza dell’America attraverso un terzo punto di vista, quello di mia moglie. È nata e cresciuta in Libia, un Paese che non ha mai avuto l’esperienza della legge uguale per tutti, di elezioni libere, di fluide transizioni di potere, dei diritti garantiti dal nostro Primo Emendamento.

Certo, la costituzione libica del 1951 stilata quando il Paese ottenne l’indipendenza sembrava promettere di tutto e di più, ma si trattava solo di una tragica messinscena, in modo ancora più doloroso per la minoranza ebraica. Anni dopo, mia moglie e la sua numerosa famiglia ebbero la fortuna di fuggire con le loro vite. Tragicamente, non furono pochi gli ebrei che caddero sotto la violenza di estremisti sanguinari.

Dal 1979, anno in cui è arrivata negli Stati Uniti - diventandone poi fiera cittadina - mia moglie non ha mai smesso di ricordare quanto è fortunata a poter vivere in un luogo dove i diritti non dipendono dall’umore di un despota, ma dalla supremazia della legge di una società democratica.

Ma proprio come i miei genitori, si lamenta del fatto che sin troppi americani nati negli Usa sembrano prendere tutto ciò per scontato. Non avendo mai avuto esperienza dell’assenza della democrazia, non riescono a capirne veramente il maestoso significato. E troppo spesso sminuiscono l’America, senza capire quale simbolo di speranza essa sia, in tutto il mondo. In un momento in cui qualche americano minaccia il nostro pluralismo e la nostra diversità, e alcuni scelgono addirittura di omaggiare l’era nazista, è importante ricordare dove portano quelle strade.

C’è un qualche cosa di speciale in questo nobile Paese, per cui vale la pena combattere, e che ci unisce. Forse è racchiuso – direbbe la mia famiglia – in quelle tre parole che ci definiscono, E pluribus unum, e in quella torcia della libertà che brilla nel porto di New York.

(*) Ceo dell’American Jewish Committee

Aggiornato il 29 agosto 2017 alle ore 10:46