Duello aereo in Siria, le ragioni di uno scontro “fratricida”

Un cacciabombardiere Su-22 dell’aviazione regolare siriana è stato abbattuto da un F-18 della marina statunitense. È successo domenica sera e si tratta del primo incidente di questo tipo dall’inizio della guerra civile siriana. Gli americani non erano mai stati coinvolti in un incidente militare con le forze regolari siriane. L’episodio ricorda da vicino quello del novembre 2015, quando era stato un F-16 turco ad abbattere un cacciabombardiere russo. Fra Russia e Turchia era seguito un periodo di gelo diplomatico e politico, seguito da una distensione solo l’estate successiva (dovuta, soprattutto, al fallito golpe contro Erdogan). L’F-18 americano in questione, ieri, non ha affrontato uno scontro diretto con i russi, ma poco ci manca. L’aviazione siriana, infatti, è strettamente coordinata con quella russa.

In un periodo di nuova guerra fredda, episodi di questo tipo fanno paura. Anche se è molto presto per fare discorsi catastrofisti sulle conseguenze. Perché il duello aereo è avvenuto? Perché l’Su-22 governativo siriano stava bombardato le forze siriane ribelli (Syrian Democratic Forces) intente ad attaccare lo Stato Islamico a Raqqa. Colpendo le forze ribelli, i siriani hanno colpito o rischiato di colpire anche le forze speciali e le batterie di artiglieria americane e francesi che partecipano alle operazioni contro lo Stato Islamico. Indirettamente, dunque, i governativi siriani stavano combattendo dalla parte dell’Isis. Per questo, gli aerei statunitensi a copertura delle operazioni contro lo Stato Islamico sono intervenuti, abbattendo l’intruso. Mosca ha prontamente protestato attraverso i suoi canali militari e diplomatici, affermando che, d’ora in avanti, “Ogni aereo, droni inclusi, appartenente alla coalizione internazionale che operi a Ovest del fiume Eufrate, sarà tracciato dalle forze anti-aeree russe in cielo e in terra e considerato come un bersaglio”. Di fatto, i russi hanno proclamato unilateralmente una no-fly zone a Ovest dell’Eufrate, cioè su tutto lo spazio aereo siriano. Finora avevano accettato la presenza della Coalizione internazionale anti-Isis, adesso non scenderanno più a compromessi. Anche i russi accusano gli Stati Uniti di appoggiare indirettamente lo Stato Islamico, perché, così affermano i comandi locali, la coalizione starebbe permettendo ai jihadisti di ritirarsi da Raqqa per ri-schierarsi contro i governativi di Assad.

Chi dei due ha ragione? La mossa iniziale è stata compiuta da un Su-22 siriano. Tuttavia, essendo sul suo spazio aereo e non violando alcuna no-fly zone, aveva il diritto di farlo. Si può tuttavia discutere sulle circostanze e sulle opportunità dell’azione di bombardamento siriana: era proprio necessario colpire chi stava “facendo il lavoro sporco per Damasco”, cioè sloggiando lo Stato Islamico da Raqqa? Da questo punto di vista, l’azione siriana ha dell’incredibile e appare come una provocazione. Dall’altra parte, era proprio necessario abbattere un aereo siriano, nel bel mezzo di una battaglia contro lo Stato Islamico? Non c’era alcuna possibilità di scortarlo fuori dal teatro di operazioni? Finora il coordinamento fra le sortite della Coalizione, dei russi e dei regolari siriani è stato condotto egregiamente. Quasi ha del miracoloso: centinaia di aerei da guerra solcano da tre anni i cieli di quell’angolo di Medio Oriente pur senza mai affrontarsi, benché siano quantomeno ostili gli uni agli altri. Qualcosa, in questo meccanismo, domenica non ha funzionato. Bisogna ancora capire cosa e perché. I siriani parlano di “attacco deliberato” nei loro confronti. Sia Mosca che Damasco negano che gli americani abbiano comunicato un avvertimento attraverso i canali finora usati. Secondo le dichiarazioni ufficiali dell’Operazione Inherent Resolve (l’operazione della Coalizione contro lo Stato Islamico), al contrario, la Coalizione avrebbe avvertito i siriani affinché interrompessero i bombardamenti e anche il comando russo sarebbe stato contattato per porre fine all’escalation. L’abbattimento dell’Su-22 sarebbe stato effettuato “secondo le regole di ingaggio e per l’auto-difesa collettiva della Coalizione”.

Questo episodio deluderà, per la seconda volta in pochi mesi, coloro che pensavano a un radicale cambio di rotta dell’amministrazione Trump nel conflitto siriano. La prima volta è il bombardamento missilistico della base aerea di Shayrat avvenuto in aprile, come risposta a un attacco chimico siriano nella provincia di Idlib. Il fatto è che, volente o nolente, l’amministrazione statunitense (guidata da Obama o da Trump, in questo caso, è secondario), non può schierarsi dalla parte di Assad. E continuerà a considerare il governo di Damasco come forza ostile. Non lo può fare per due ragioni fondamentali: il regime di Assad è ancora tecnicamente in guerra con Israele e alle spalle del regime di Assad c’è l’appoggio politico e militare dell’Iran, che è a sua volta un nemico di Israele e dell’Arabia Saudita, cioè di entrambi i principali alleati statunitensi in Medio Oriente. Trump ha promesso di fronteggiare la minaccia dell’Iran. Quindi non può appoggiare Assad.

C’è anche un terzo motivo per cui non lo può fare: la guerra del regime di Damasco allo Stato Islamico è più che ambigua. Il regime baathista siriano, nei lunghi anni della guerra in Iraq, ha chiuso entrambi gli occhi sugli jihadisti che usavano il territorio della Siria come transito per andare a combattere contro gli americani nel paese vicino. Molti di quei jihadisti hanno fatto esperienza e consolidato le basi in Siria proprio in quel periodo, per poi confluire nell’Isis. Secondo: lo stesso impegno del regime di Damasco a combattere contro le forze dell’Sdf non è stato speso nella lotta contro l’Isis. Insomma, parrebbe quasi che Damasco consideri lo Stato Islamico come un fronte secondario, non come il nemico principale. E dai pozzi controllati dai jihadisti, un po’ di petrolio viene destinato ai siriani governativi, nella locale rete del contrabbando. Lo stesso tipo di ambiguità caratterizza anche l’impegno dei russi, che hanno combattuto quasi esclusivamente nella Siria occidentale, contro le forze dell’Sdf, e molto poco contro le forze dell’Isis nell’Est della Siria. Questa ambiguità, è bene ricordarlo, è anche all’origine dell’incidente di domenica su Raqqa: un aereo siriano stava bombardando i ribelli alleati degli americani, non lo Stato Islamico. Quindi non è da escludere che l’abbattimento di un Su-22 sia un avvertimento, per ora limitato.

Aggiornato il 19 giugno 2017 alle ore 18:32