La “Macronizzazione”

“Macronizzati” ma non troppo. Anzi, quasi per niente. Così ci appaiono, dopo il primo turno delle legislative, gli elettori francesi che hanno disertato per più di metà degli aventi diritto le urne dello scorso 11 giungo, in occasione delle elezioni legislative. Rem (“République en marche”) ha ottenuto in definitiva soltanto il 15 per cento dei voti degli iscritti alle liste elettorali. Si presume, pertanto, che Emmanuel Macron avrà dopo il secondo turno la maggioranza assoluta all’Assemblea, pur rappresentando soltanto un sesto dell’elettorato attivo francese. La maggior parte dei francesi, cioè, non si è voluta sporcare le mani e rimane alla finestra, pur avendo dato implicitamente il via libera all’esperimento Macron per l’attuazione delle sue riforme. Salvo eventualmente, in futuro, a dire la sua nelle piazze. Il che è ancora peggio. Prima di addentrarci sugli aspetti un po’ più complessi relativi alla questione della rappresentanza, occorre dire in premessa due cose essenziali. La prima, a contenuto tecnico, concerne il sistema elettorale francese che prevede un doppio turno di collegio (il prossimo si svolgerà il 18 giugno) per l’elezione dei deputati.

La cosa più interessante, in tal senso, riguarda l’accesso al ballottaggio condizionato all’effettiva partecipazione popolare. Ovvero: per essere eletto al primo turno il candidato deve aver ricevuto la metà più uno dei voti validamente espressi e il sostegno di almeno il 25 per cento degli elettori aventi diritto. E sono in pochissimi ad aver goduto di tale privilegio l’11 giugno scorso. Invece, per aver diritto a presentarsi al secondo turno, bisogna aver ottenuto almeno il 12,5 per cento dei consensi rispetto al numero degli iscritti alla circoscrizione elettorale. Qualora tale soglia sia stata superata da un solo candidato, va al ballottaggio quello che lo segue immediatamente per numero di consensi ricevuti. Se nessuno supera il 12,5 per cento, vanno al ballottaggio i due candidati che hanno ottenuto più voti.

Le elezioni legislative francesi e quelle amministrative italiane (caratterizzate queste ultime dal dilagare delle liste civiche e dall’assenza quasi totale dei simboli di partito!) suonano un po’ come la campana a morto della democrazia elettiva in Italia e Francia, così come l’abbiamo conosciuta ai tempi andati delle grandi contrapposizioni ideologiche tra destra e sinistra storiche, che hanno visto la nascita nel Secondo Dopoguerra dei partiti di massa, appartenenti alle tre grandi famiglie politiche dei social-comunisti, dei centristi e dei liberali. Un po’ ovunque, infatti, gli apparati partitici sono stati progressivamente sostituiti dalla mediatizzazione (a-territorializzata!) della vita pubblica. Lo “strumento” per la comunicazione del pensiero e del programma politico da neutro si è fatto invasivo e totalizzante, per la creazione di leadership più o meno carismatiche. Con il tragico risultato di aver trasfigurato un contropotere (la stampa, i media, gli intellettuali che fanno riferimento a questi ultimi) in un autentico antipotere, anche grazie alla devastazione ubiquitaria procurata dalla dominanza assoluta dei social network (“uno-vale-uno” e le opinioni sono tutte legittime), che hanno distrutto alla radice la dialettica politica.

Con una conseguenza drammatica: solo gli interessi e i gruppi che si coagulano attorno al nucleo ristretto della figura del leader sono legittimati all’accesso e alla ridistribuzione delle risorse e degli incarichi pubblici. La “spartizione” della vittoria elettorale, quindi, non va più a beneficio delle fasce di popolazione che hanno contribuito al suo successo, alternandosi nel tempo, bensì dei gruppi ristretti di potere che hanno il monopolio della fabbrica mediatica delle leadership, e che sono in grado di finanziare adeguatamente i costi esorbitanti di una campagna elettorale a tutto campo. Chiarisce bene la cosa il filosofo Michel Onfray, intervistato dal settimanale francese l’Express dell’11 giugno.

A suo avviso, il duello Macron-Le Pen del primo turno ha sofferto di questa sorta di etero direzione mediatico-finanziaria, in cui si è forzata la contrapposizione escatologica tra “Bene” (Macron e l’Europa) e “Male” (Le Pen e il sovranismo antieuropeo), facendo di tutto affinché al ballottaggio andassero proprio “quei” due sfidanti. “Guarda caso il ‘Bene’ era rappresentato dallo Stato maastrichtiano e dalla sua ideologia, coincidente in altri termini con il mercato imposto dallo Stato, mentre il lato del “Male” era costituito da tutto ciò che vi si opponeva e che si è trovato, come tale, demonizzato, criminalizzato e perfino hitlerizzato [...] In fin dei conti, bisognava che i francesi credessero di non avere altra scelta tra il fascismo di Marine Le Pen e l’antifascismo di Emmanuel Macron (ovvero) tra una discendente della divisione ‘Das Reich’, che fece stragi nella regione di Oradour-sur-Glane, e il pronipotino del Generale De Gaulle”.

Macron, quindi, secondo Onfray è un perfetto prodotto della “Casta” che attraverso di lui si bea e si compiace di una ricchezza che fa del bene alla Nazione credendosi per di più di sinistra, unica depositaria della fratellanza universale e della generosità che abbraccia il pianeta intero. Si tratta, quindi, “dell’amore per il prossimo a immagine e somiglianza di coloro che appartengono al campo del Bene. Con Macron, il giscardismo che trionfa dal 1983 non è più una malattia di cui vergognarsi nella stampa liberale di sinistra, sovvenzionata dallo Stato. Macron è il figlio naturale sia di Giscard per quel che riguarda l’economia, sia di Mitterand per l’aspirazione a essere come De Gaulle. Quanto c’è di meglio, insomma, per mettere d’accordo tra di loro i fabbricanti di opinione”. Di che meditare, insomma.

Aggiornato il 13 giugno 2017 alle ore 21:47