Brzezinski, lo stratega che non credeva nella “distensione”

Muore all’età di 89 anni Zbigniew Brzezinski, consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Carter e uno dei maggiori teorici contemporanei di politica internazionale. Di scuola e impostazione realista (scuola delle Relazioni Internazionali per cui sono gli Stati gli attori dell’arena internazionale) esattamente come Henry Kissinger, è diventato l’anti-Kissinger per eccellenza. Erano entrambi anti-comunisti, ma l’uno era fautore della distensione con l’Urss e repubblicano di affiliazione, l’altro era anti-sovietico a oltranza e democratico per scelta. In uno dei tanti paradossi della storia, fra i due, il “falco”, le cui idee sono servite al repubblicano Reagan per dare la spallata finale all’Urss, era proprio il democratico Brzezinski.

Polacco, dissidente nell’anima e nella politica, la sua terra e la sua famiglia avevano subito il comunismo in prima persona. Per lo stratega dal nome impronunciabile (detto “Zbig” per semplificazione), la guerra fredda era anche un fatto personale. Questo non vuol dire, come nelle accuse dei numerosi kissingeriani, che avesse perso lucidità. Tutt’altro. Alla fine della guerra fredda, nel 1991, la realtà dimostrò proprio che avesse ragione Brzezinski e non Kissinger. Dal 1977 puntò sull’arma dei diritti umani e si impose per il rispetto letterale degli accordi di Helsinki: il riconoscimento delle frontiere del momento (fra cui la divisione della Germania) era un danno già fatto, ma almeno andava scambiato con il controllo sulla garanzia legale dei diritti umani, anche all’interno dei regimi comunisti. I “gruppi Helsinki” divennero punto di riferimento dei dissidenti in tutto l’Est oltre-cortina. Formarono l’ossatura di una classe dirigente che poi subentrò ai regimi comunisti, quando questi collassarono.

Anche il riavvicinamento con la Cina, iniziato da Nixon e Kissinger per motivi contingenti (sfruttare la divisione fra Mosca e Pechino, porre fine alla guerra nel Vietnam) venne portato avanti da Brzezinski con maggior determinazione e visione strategica. Cosa aveva di diverso la Cina dall’Urss, se non che fosse un totalitarismo ancor più mostruoso dell’Urss? Per “Zbig”, l’Urss era irriformabile, la Cina, al contrario, poteva riformarsi. L’Urss era irriformabile perché i suoi leader traevano la loro legittimazione da Lenin, dal suo esempio e dalla sua emulazione. Il sistema economico sovietico era irrazionale, ma ormai destinato a crollare per la sua stessa rigidità, per l’incapacità di concepire qualcosa di diverso. Brzezinski anticipò di almeno un decennio il collasso del sistema sovietico, perché aveva capito che, in caso di riforme vere e necessarie, la sua legittimità ideologica sarebbe venuta a mancare. Al contrario, la Cina del suo tempo era un paese già governato da una classe dirigente nuova, che aveva subito la persecuzione di Mao durante la Rivoluzione Culturale e dunque non aveva nulla da perdere (e tantissimo da guadagnare) a riformare il sistema. La storia, almeno fino ad oggi, gli ha dato ragione.

Finita l’esperienza nell’amministrazione Carter e finita la guerra fredda, “Zbig” è rimasto un grande teorico. Abbastanza attivo e influente sotto l’amministrazione Clinton, la sua stella ha continuato a brillare ancora negli anni Novanta. Anni in cui, da teorico, ha scritto il suo libro più citato: la Grande Scacchiera, una strategia suggerita ai presidenti americani per mantenere l’ordine internazionale, garantire l’egemonia agli Usa ed evitare una nuova divisione del mondo in blocchi. Per questo è stato accusato di “sciovinismo”. Ma, da stratega americano, non gli si sarebbe potuto chiedere altro: difficilmente avrebbe potuto suggerire una strategia per la sconfitta. Kissinger e i kissingeriani, che caldeggiavano la distensione con l’Urss negli anni Settanta e tuttora vogliono la distensione con la Russia post-sovietica, accusano l’ultimo “Zbig” di essere stato un “russofobo”. L’autore polacco non ha mai nascosto la sua diffidenza nei confronti della Russia repubblicana, che paragonava, con un paradosso storico, a “una Germania nazista mai realmente riformata e governata, dopo la morte di Hitler, da qualche gauleiter (gerarca, ndr) di secondo rango”. La sua strategia per la Grande Scacchiera si può riassumere come un nuovo contenimento, la creazione di una cintura di sicurezza attorno alla Russia per evitare che a Mosca tornassero appetiti imperiali.

La storia degli ultimi vent’anni ha dimostrato che gli appetiti imperiali, in Russia, non sono mai passati del tutto. Per questo, volenti o nolenti, più o meno consapevolmente, i leader europei e americani del dopo-guerra fredda, hanno dovuto fare quel che “Zbig” suggeriva: allargamento a Est della Nato per difendere le nuove democrazie e dell’Ue per consolidarne lo sviluppo. Non è certo “Zbig” ad averglielo ordinato: le leadership che hanno gestito e continuano a gestire quel percorso, si sono trovate semplicemente senza alternative accettabili, poste di fronte alla scelta se liberarsi dal passato comunista o accettare il limbo di una Russia post-sovietica e sempre più nostalgica.

Con Barack Obama, fautore della politica del “reset” con la Russia, le idee di Brzezinski sono state archiviate. Ma non definitivamente: è la realtà che ha costretto Obama a ritirale fuori dal cassetto nel 2014. Con l’aggressione russa all’Ucraina e soprattutto l’annessione della Crimea (prima grave violazione di un confine europeo dal 1945), anche Obama ha capito l’importanza del nuovo contenimento. Per poco. Perché, con la vittoria di Donald Trump alla Casa Bianca, Kissinger è tornato in auge e con lui la politica della distensione con Mosca. Ma il duello continua.

Aggiornato il 29 maggio 2017 alle ore 22:38