Boris Johnson, romantico europeista

“Sono europeo ma non sopporto il modo in cui confondiamo l’Europa con il progetto politico dell’Unione europea. Non c’è nulla di antieuropeo o xenofobo nel voler votare per l’uscita dalla Ue il 23 giugno. A volte le regole Ue sembrano semplicemente ridicole, come il divieto di riciclare le bustine del tè o di far esplodere i palloncini dei bambini. I cittadini vedono l’impotenza dei loro politici - ad esempio sull’immigrazione...”.

Così si esprimeva pochi giorni prima del referendum per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea Boris Johnson, ora ministro degli Esteri inglese. Forte sostenitore della “Brexit”, negli ultimi giorni Johnson ha fatto parlare di sé per i suoi rinnovati accenti antieuropeisti nella conduzione dei negoziati per il distacco dall’Unione.

È sempre stata questa la posizione dell’eccentrico conservatore britannico, sindaco di Londra sino allo scorso anno? Il dubbio se lo è posto il giornalista del Sunday Times, Tim Shipman, il quale sostiene che in un articolo scritto anni fa, mai pubblicato e rimasto segreto, l’attuale ministro degli Esteri dichiarava che “la permanenza del Regno Unito nella Ue sarebbe stata una manna per il mondo e per l’Europa e temeva una Brexit che avrebbe potuto provocare nel Paese uno shock economico e avrebbe agevolato le mire indipendentiste della Scozia”.

Chi ha letto “Il sogno di Roma. La lezione dell’antichità per capire l’Europa di oggi”, libro scritto nel 2010 da Boris Johnson, laurea in Storia antica ad Oxford, non può che essere d’accordo sulla scoperta di Tim Shipman. Fine del volume è analizzare come nell’antica Roma popoli così diversi poterono condividere una comune identità europea, quella romana, mentre oggi questo obiettivo appare tanto difficile da raggiungere. L’autore, grande estimatore di Roma, sin dalle prime pagine sostiene che per molti versi l’Unione europea può essere considerata l’erede dell’Impero Romano in quanto “tentativo di unificare un vasto e diversificato territorio alla maniera dei romani, creando un mercato unico, una moneta unica e un’unione politica”.

Per far meglio comprendere la sua considerazione del periodo cita Edward Gibbon che nel 1776 scriveva: “Se un uomo fosse chiamato a fissare il periodo della storia del mondo in cui la razza umana è stata più felice e prospera, citerebbe senza esitazione quello trascorso dalla morte di Domiziano all’ascesa al trono di Commodo”, vale a dire dal 96 al 180 d.C., anche perché “nella sua sfera, Roma promosse la pace e la prosperità delle tante nazioni che erano sotto il suo dominio più a lungo e più pienamente di ogni altro potere reggente.

Fondamentale per l’economia fu la moneta unica, introdotta dall’imperatore Augusto nell’11 a.C., il cui valore risiedeva non tanto in quello intrinseco del metallo, ma nell’autorità dell’immagine che recava stampata, limite che secondo Johnson ha oggi l’Euro, su cui “i leader europei non si sono accordati su un’unica persona da ritrarre ripiegando su una deprimente serie di disegni architettonici che privano la moneta di valore e responsabilità politica”.

Anche la politica agricola romana viene apprezzata dall’autore il quale ritiene che la moderna Ue, nella sua ossessione per il mantenimento dei prezzi e per i massicci sussidi, imiti l’antico predecessore. Gli imperatori erano angosciati dalle carenze di cibo per la popolazione. Domiziano fu talmente allarmato dalla scarsità del grano coltivato nel paese da ordinare che tutti i vigneti della Provenza fossero estirpati: uno dei primi esempi di politica agricola cui ci ha abituati l’Europa negli ultimi cinquant’anni.

Johnson sottolinea come per la maggior parte della popolazione delle provincie sottomesse l’Impero romano non era tanto una minaccia alle antiche libertà quanto un diverso sistema con cui le stesse vecchie classi padronali miravano a consolidare i propri privilegi. Se è vero che le provincie avevano perso le loro libertà è anche vero che avevano trovato una gabbia sempre più dorata. Il piacevole volumetto si conclude con alcune riflessioni dell’autore in merito alla mancanza di simboli intorno a cui i popoli del continente dovrebbero aggregarsi e cita Jaques Delors definendolo “grande”, quale presidente della Commissione che tentò di porre rimedio alla lacuna senza successo.

Dalla lettura del saggio esce fuori un Boris Johnson pienamente convinto della necessità di un’Europa che unisca popoli diversi per lingua, storia, religione e tradizioni, inserendo tra questi anche quello turco, sulla scia del successo di Roma che riuscì a costruire un sistema politico - e più ancora una civiltà- in grado di unire e amalgamare milioni di cittadini. Forse il suo attuale antieuropeismo deriva dal suo essere un convinto europeista romantico.

Aggiornato il 17 maggio 2017 alle ore 10:45