Transizione e ballottaggio

È visibile, dopo la quasi vittoria di Emmanuel Macron al primo turno delle presidenziali francesi, il compiacimento dei sostenitori dello status quo, i quali interpretano i risultati (e il probabile esito favorevole del ballottaggio) come inizio del riflusso dell’“onda lunga populista”, che dopo il travolgente 2016 (Brexit e Trump) avrebbe iniziato a decrescere.

Probabilmente qualcosa del genere era stato pensato anche alla cancelleria del Reich nel 1932, quando il partito nazista all’elezione di novembre perse voti e seggi in Parlamento rispetto alle precedenti (del mese di luglio). Ciò non impedì che Hitler fosse chiamato al governo, con le note conseguenze.

È facile ricordare che tale precedente (e altri simili) non consentono di ritenere uno “stop” elettorale indice sicuro dell’arresto di un cambiamento diffuso nello spazio e, come tutti gli analoghi, spalmato nel tempo. Quanto succede in questi anni è infatti riconducibile alle analisi politiche (e giuridiche) della transizione, della crisi dei sistemi istituzionali e politici, fino al dualismo dei poteri di memoria trozkista.

Senza tuttavia scomodare Trotsky è opportuno ricordare che la transizione da un sistema politico, regime, ordinamento a un altro è, per lo più, il risultato di una pluralità non solo di cause (e occasioni) ma di eventi e atti cospiranti alla conclusione finale. E che spesso arriva lenta, e le battute d’arresto non sono rivelatrici di inversione di tendenza. Così né le elezioni ricordate potevano evitare la fine di Weimar, né la vittoria di Ezio ai Campi Catalauni quella dell’Impero romano d’occidente. E neanche la sconfitta di Jean-Marie Le Pen contro Jacques Chirac una dozzina di anni fa, malgrado la schiacciante maggioranza (col Front Nazional al 20 per cento contro l’80 per cento) ha messo in crisi il movimento e la candidata Marine che, anche se perderà, com’è probabile, il ballottaggio con Emmanuel Macron, lo farà con una percentuale che si prevede pari al 40 per cento dei votanti: il doppio di quanto raccolse il padre. E il dato più significativo è proprio questo: che, malgrado le ripetute sconfitte, il populismo d’Oltralpe continua a crescere e, per di più, a moltiplicarsi altrove. Anzi, il fatto che si riprenda e aumenti dopo le ripetute disfatte (l’ultima alle elezioni regionali di due anni fa) dimostra che la presa del movimento sull’elettorato francese è sempre più consolidata. Non si tratta, per intenderci dell’effimero 40 per cento di Renzi alle elezioni europee, realizzato con i regali elargiti da Palazzo Chigi, ma a dispetto di non poterli fare.

D’altra parte a guardare il populismo nel suo insieme, non è limitato a una nazione o a un frangente: è esteso a tutta l’area “occidentale” del pianeta (euro-americana) e cresce ormai da diversi anni. Come ho scritto per “L’Opinione”, il “populismo” è conseguenza del cambiamento dell’Europa (e del pianeta) dopo il crollo del comunismo e la neutralizzazione dell’opposizione borghese/proletario, che aveva caratterizzato il “secolo breve”. Pretendere che un mutamento epocale si perfezioni in una tornata (o due) elettorale o in un lustro o poco più è conseguenza o di un’interpretazione ad usum delphini (a favore della élite decadente) o di una visione di corto respiro. Quella cui le classi dirigenti, specie italiane, ci hanno abituato.

Aggiornato il 03 maggio 2017 alle ore 19:44