Donald Trump si ripete. Dopo i 59 missili lanciati contro la base aerea siriana di al-Shayrat è stato il turno dell’Afghanistan.

Un ordigno ad altissimo potenziale è stato sganciato, ieri l’altro, da un MC-130 dell’U.S. Air Force Special Operations Command su un’area del distretto di Achin, nella provincia di Nangarhar, nella quale era segnalata l’attività di miliziani dell’Is. La bomba, del tipo Gbu-43 Massive Ordnance Air Blast bomb (Moab), benché non sia il sistema d’arma convenzionale più potente a disposizione degli Stati Uniti, ha comunque raggiunto i suoi obiettivi. Sul piano operativo: distruggere una rete di cunicoli sotterranei usati dai combattenti islamici per spostarsi sul territorio soggetto al loro controllo; sul piano diplomatico, inviare un messaggio forte e chiaro di presenza a tutti i player dello scacchiere globale.

“The Donald” ha voluto ribadire al mondo le sue intenzioni. “America first”, che significa anche: l’America è della partita. Ancora una volta gli analisti schierati contro l’attuale inquilino della Casa Bianca sono rimasti spiazzati. Dopo aver a lungo strologato sul rischio di una svolta isolazionista di Trump dovranno ricredersi. Il segnale lanciato da Washington è indirizzato anche al leader-padrone della Corea del Nord, Kim-Jong-un, che sta scherzando col fuoco. Tuttavia, non sfugge la coincidenza temporale con la convocazione, a Mosca, di una Conferenza di Pace indetta dal Cremlino sul futuro dell’Afghanistan alla quale Stati Uniti e Nato non sono stati invitati. Che “The Donald” non abbia gradito lo zelo di Vladimir Putin? Trump non è il primo presidente Usa a privilegiare la “diplomazia delle bombe”. Appare evidente che, in politica estera, Trump stia ripercorrendo le orme di Ronald Reagan. È pur vero che vi sono delle similitudini di contesto tra l’attuale fase geopolitica e quella in cui si mosse il suo grande predecessore.

Negli anni Ottanta, a fronte di una situazione di stallo che teneva bloccati Usa e Urss su posizioni di reciproca impotenza non potendosi consentire uno scontro diretto, pena lo scoppio di un conflitto nucleare definitivo per le sorti dell’umanità, una pletora di satrapi e dittatori locali cercarono di ritagliarsi spazi di potere usando l’arma del ricatto bellico. Allora a mettere in pericolo il mondo fu il colonnello libico Gheddafi, sospettato di essere il regista del montante terrorismo in Europa.

Oggi siamo alle prese con le minacce del buffo Kim-Jong-un che col suo arsenale nucleare spaventa la Cina di Xi Jinping, lord protettore della Corea del Nord, per le invitabili conseguenze che scaturirebbero da un atto ostile, o peggio, che non la Casa Bianca. Reagan annichilì la minaccia Gheddafi con l’operazione “El Dorado Canyon” il 15 aprile del 1986. Si trattò di un bombardamento della Libia su cinque obiettivi identificati tra caserme e aeroporti che mise al tappeto le mire di leadership del terrorismo di matrice religiosa coltivate dal dittatore di Tripoli. In quell’occasione la temuta reazione di Mosca non vi fu. Al contrario, l’azione punitiva contro “cane pazzo” Gheddafi innescò il processo di pace che portò alla firma, l’8 dicembre del 1987, dell’Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty). Il trattato chiudeva il contenzioso sugli “euromissili” con l’eliminazione delle testate nucleari a medio raggio. L’accordo, che è una pietra miliare nella storia dei rapporti tra le due superpotenze, fu favorito dal disgelo tra Stati Uniti e Unione Sovietica, certificato dallo storico incontro di Ronald Reagan con Michail Gorbaciov l’11 ottobre del 1986 a Reykjavík.

Ciò porta a concludere che, dopo la fase dimostrativa inaugurata dai missili Usa sulla Siria e che potrà essere caratterizzata da altre prove di forza del medesimo tenore anche a danno degli arsenali della temuta Corea del Nord, si aprirà una fase di trattative con Mosca e con Pechino destinata a ristabilire gli equilibri globali su basi più favorevoli agli Stati Uniti rispetto al recente passato. L’immediata conseguenza di questo cambio di strategia di Washington è quella di relegare l’esperienza di Barack Obama a contendersi la palma della peggiore presidenza della storia degli Stati Uniti con un altro illustre perdente: Jimmy Carter. Anche questo è un effetto della nuova “diplomazia delle bombe” riproposta in versione riveduta e corretta da Donald Trump.

Aggiornato il 02 maggio 2017 alle ore 23:07