Venezia e la minaccia che viene dai Balcani

Il fallito attentato, da parte di un gruppo di terroristi kosovari, al Ponte di Rialto, luogo emblematico di Venezia e una delle “vedute” più famose nel mondo, dovrebbe necessariamente indurre ad alcune considerazioni. In primo luogo va infatti compreso che ci si trova di fronte non a un’operazione coordinata e diretta con precisi obiettivi strategici, bensì a una sorta di manipolo di jihadisti “fai-da-te”: kosovari che a Venezia facevano da tempo i camerieri, e dei quali, a quanto sembra, solo uno era un combattente di ritorno dalla Siria: lo dimostrano le intercettazioni telefoniche fra i componenti del gruppo, che hanno registrato affermazioni come “Qui è pieno di infedeli, dobbiamo punirli...” con le chiare stigmate del velleitarismo e dell’improvvisazione.

Questo, però, non deve in alcun modo tranquillizzarci, anzi, perché il nuovo volto del terrorismo jihadista è proprio rappresentato da singoli o piccoli gruppi “spontanei”, avulsi da qualsivoglia catena di comando e gerarchia. Proprio per questo ben difficilmente prevedibili sia per quanto riguarda gli obiettivi, sia per le modalità operative. Di fatto la sconfitta militare, ancorché non definitiva, dello Stato Islamico sia in Siria che in Iraq, sta provocando una polverizzazione dell’universo jihadista che, privo ormai di una guida sicura, tende – e sempre più tenderà in futuro – ad agire per micro-cellule spontanee e scoordinate. Proprio per questo, come dicevamo, ben difficili da individuare per i servizi di sicurezza dei Paesi occidentali. Cellule la cui preparazione non va, tuttavia, sottovalutata.

Molti foreign fighters che hanno combattuto in Siria e in Iraq nelle file dell’Isis stanno infatti ritornando, dopo lo sbandamento delle milizie del Califfo, nei loro Paesi di origine, e di qui raggiungendo le comunità dei loro connazionali sparsi un po’ in tutta Europa. E si tratta di uomini in genere ben addestrati non solo nell’uso delle armi, ma anche, più specificamente, nelle tecniche del terrorismo. Infatti, di fronte al rischio della sconfitta militare e della perdita del controllo territoriale, la leadership dello Stato Islamico sembra avere, da tempo, puntato proprio su questo: seminare per il mondo delle “Uova di drago” pronte a schiudersi nei luoghi e nei momenti più imprevisti. E questo ci fa comprendere come la nuova minaccia sia diffusa capillarmente, ben al di là dei classici “obiettivi sensibili”, e anche al di là dei luoghi emblematici e simbolici. Come ha infatti pronosticato il direttore de “Il Nodo di Gordio”, Daniele Lazzeri – in un’intervista rilasciata oltre un anno fa a “L’Arena” di Verona – le cellule del nuovo jihadismo si trovano sparse un po’ in tutta la provincia italiana, come hanno dimostrato gli arresti in località decentrate come Brescia, Merano, Belluno. Si tratta di una fitta rete di gruppi, imam, case di preghiera, spesso anche singoli individui che, negli scorsi anni, ha avuto la funzione principale di reclutare combattenti per lo scenario siro-iracheno e di fornire appoggio logistico a quelli – ben più numerosi – in transito per l’Italia e provenienti dalla Francia e dal Nord Europa. Una “rete informale” che, oggi, sembra sul punto di passare all’azione diretta. E, come detto, in modo ben difficilmente prevedibile. Servizi di intelligence francesi, belgi, tedeschi e da ultimo persino britannici sono già stati più volte presi in contropiede da “lupi solitari” e/o da gruppuscoli di jihadisti “fai-da-te”.

In Italia sino ad ora è andata meglio solo per due ragioni: la minore presenza di musulmani – soprattutto di quelli di seconda generazione, statisticamente i più propensi alla radicalizzazione – e le caratteristiche proprie del nostro sistema di sicurezza. Che si fonda – come ha osservato Edward Luttwak – su un capillare controllo territoriale da parte delle forze dell’ordine: carabinieri, polizia e finanza. Un controllo che, anche nel caso di Venezia, ha funzionato. Tuttavia ciò non ci autorizza a riposare sugli allori. Vi è poi un altro elemento – già a suo tempo messo in rilievo da Lazzeri – che va preso in attenta considerazione.

La minaccia jihadista per l’Italia proviene, oggi, non tanto dal Medio Oriente e dal Nord Africa, quanto dalla regione balcanica. Gli aspiranti terroristi di Venezia non a caso sono di provenienza kosovara. E il Kosovo è ormai una base operativa delle cellule terroristiche e, un fertile terreno di reclutamento per il radicalismo islamista. Uno “Stato” completamente controllato da ex miliziani dell’Uck, molti dei quali simpatizzanti, o almeno molto tolleranti nei confronti di predicatori e imam salafiti e wahabiti che, forti dell’appoggio di Ong saudite e del Qatar, hanno svolto una capillare opera di indottrinamento. Processo che si è inverato anche nella vicina Bosnia, altro fertile terreno di reclutamento, ieri, per i foreign fighters diretti in Siria e Iraq, oggi per coloro che partono per costituire e innervare cellule di potenziali terroristi in tutta Europa. E il discorso vale, pur con dimensioni più ridotte, anche per altri Paesi balcanici, dove le comunità islamiche, tradizionalmente ben inserite e tranquille, sono state per troppo tempo esposte al contagio radicale proveniente da mondo arabo. E questo mentre l’Occidente, distratto verso altri scenari – Medio Oriente, Maghreb, crisi ucraina – volgeva lo sguardo altrove. Ignorando, colpevolmente, quello che stava avvenendo in una dorsale critica del nostro Continente.

Un sonno dal quale sarebbe opportuno destarsi quanto prima, per evitare che il risveglio sia sanguinoso e traumatico. Come avrebbe potuto accadere sul Ponte di Rialto.

(*) Senior fellow del think tank di studi geopolitici “Il Nodo di Gordio

Aggiornato il 09 maggio 2017 alle ore 12:07