Le radici di Trump

Donald Trump si è insediato come 45esimo presidente degli Stati Uniti e, a mio modo di vedere, quella che è stata la più grande sorpresa delle elezioni americane, per la apparente inclassificabilità del personaggio, comincia a non essere più tale.

Cominciamo a vedere cosa non è Trump. Di sicuro non appartiene alla sinistra americana, non ha nulla a che fare con coloro si ostinano a chiamarsi liberal, nonostante non abbiano proprio niente di liberale (anche con il taglio della “e” finale) e che Bernie Sanders ha avuto il merito di chiamare con il vero nome di socialdemocratici, tuttavia non appartiene neanche alla famiglia conservatrice.

I conservatori americani, i veri liberali degli Stati Uniti secondo me, hanno un vero culto ideologico della libertà. Estremizzata in Barry Goldwater, pragmatica e accattivante in Ronald Reagan, organicamente strutturata in Ron e Rand Paul e infine presentata e difesa alla convention da Ted Cruz, la visione conservatrice o neo-conservatrice americana, tutta incentrata sulla libertà individuale è, pur così tipicamente americana, un prodotto ancora molto europeo, perché dichiaratamente e consapevolmente ideologizzata e memore delle battagli iniziali contro l’assolutismo (non c’è nulla di casuale nella scelta del nome di “Tea Party”).

Ma Trump, pur così avversario della sinistra, non appartiene a questo mondo, è altro ancora, egli è il rappresentante di qualcosa anch’esso presente nella storia: il pragmatismo totale del “roaring capitalism yankee” di quel Paese. È l’erede di quel rombante capitalismo nordamericano (non a caso è di New York) che costruì la prima ferrovia transcontinentale, che mise a ferro e fuoco gli Stati confederati del Sud, che scovò ed estrasse petrolio in tutto il mondo. È insomma, a suo modo, un pezzo di vecchia America che ritorna, ma non ha niente a che fare con Jefferson, molto di più con Wall Street.

È l’America rozza, determinata e prepotente che abbiamo imparato a conoscere e deridere, ma anche a stimare e temere, perché ha rivoluzionato il mondo e ha comunque saputo mantenere, se pur non sempre e non per tutti, la libertà delle persone. Ma ora, spento il clamore delle commemorazioni, delle contestazioni e delle celebrazioni, Trump, almeno da un punto di vista americano (che non è mai stato quello europeo) avrà successo?

Io credo di sì e lo spiego subito. Perché riprende in pieno un punto fondamentale della tradizione del pragmatismo imperiale anglosassone che, dal periodo Elisabettiano fino a Churchill e poi a Truman e Nixon, si è sempre preoccupato essenzialmente di mantenere lo status quo, con due condizioni essenziali, la libertà (e il dominio) degli oceani e l’individuazione dell’avversario principale, contro cui fare coalizione. Via via nel tempo, prima la Spagna, poi la Francia e infine la Germania, sono state oggetto delle speciali attenzioni dei popoli di lingua inglese e delle coalizioni da loro costruite, talvolta in pace, ma sempre in una pace che non escludeva (e non escluse) la guerra, commerciale, coloniale, fredda o calda che fosse. E sempre sulla base di un “isolazionismo interventista“ teso a difendere la loro insularità (anche quando continentale come per gli Usa) contro egemonie avversarie, più che ad occupare territorialmente altre nazioni (a differenza degli altri).

Se questa è stata la storia dell’altro ieri, non c’è dubbio che quella di ieri sia stato lo scontro con la Russia Sovietica, però appunto storia di ieri. La Russia non ha più la vocazione messianica del comunismo, non è al livello tecnologico degli Stati Uniti, ha una popolazione che si è fortemente ridotta rispetto a quella americana, un’economia poco sviluppata e non dispone più di un impero satellite. I centocinquanta milioni di russi, in definitiva, sono poca cosa rispetto al miliardo e duecento milioni di cinesi ed alla loro arrembante economia.

I russi, come già fu per i francesi ed è stato per i tedeschi, sono pronti a diventare un utilissimo alleato contro il principale avversario di oggi: la Cina. La piatta stupidità di burocrati militari incapaci di staccarsi dai vecchi schemi della guerra fredda e di alcuni servizi di informazione impigriti dalla rassicurante routine del gioco delle spie cui erano abituati (un po’ come i militari francesi tra le due guerre che progettavano di fare e vincere una guerra statica come la prima) potrà continuare a creare problemi a Trump (come sta facendo) nei primi mesi di presidenza, ma, nel gioco di potenza, alla lunga Trump ha ragione e la ragione presto o tardi prevale. Lo stesso isolazionismo di “The Donald” è funzionale al suo disegno.

Nella politica di contenimento (che speriamo resti sempre e solo tale come fu per la Russia e non come fu per la Germania, perché oggi c’è l’atomica), l’America deve restare sullo sfondo, l’antemurale non possono essere più delle basi americane, ma l’India, la Russia, il Giappone, con l’America dietro. Riuscirà tale politica? Non è detto, perché mai nella storia gli anglosassoni si sono confrontati con una potenza così ricca in uomini e materie prime. Tuttavia quella di Trump almeno è una politica e non la sciocca e petulante ripetizione di vecchi schemi da parte di sussiegosi esperti invecchiati. E non saranno le fobie, giustificate dalla storia ma negatrici della realtà, di piccoli Stati europei che hanno davvero sofferto in passato, a cambiare il corso delle cose.

Anche la visione non ideologica di Trump potrà essere utile, se si pensa alla destabilizzazione ed allo spaventoso costo umano delle fallimentari politiche ideologiche nordafricane e medio-orientali fatte dagli Usa negli ultimi anni. E per l’Europa? Una grande opportunità, se sapremo coglierla. Già durante la guerra fredda Franz Josef Strauss si chiedeva “perché mai trecentocinquanta milioni di europei dovessero farsi difendere da duecento milioni di americani contro duecentocinquanta milioni di russi”, ma ultimamente la Nato assomigliava assai più ad una “presenza americana” che ad una difesa anti russa e, se Trump vorrà ridiscuterla, potrà essere anche una possibilità di maggiore e più matura coesione europea, in una partnership atlantica non subordinata.

Anche sul protezionismo trumpiano nessuna sorpresa, a meno che ci siamo dimenticati che il protezionismo tra le due guerre fu scatenato da Stati Uniti e Gran Bretagna, che Roosevelt arrivò a vietare il libero commercio di oro o che Nixon abolì di punto in bianco la convertibilità del dollaro, su cui si basava il patto esplicito alla base del dollaro come valuta internazionale e di riserva, senza dimenticare, in tempi più recenti, la guerra “ecologica” contro il Concorde o quella recentissima sulle automobili. Anche qui il liberoscambismo è il più efficiente sistema di sviluppo delle economie, purché non diventi però un totem fino a sviluppare “monocolture” industriali o agricole nazionali, distruttive di ogni autosufficienza e molto rischiose in caso di crisi degli scambi.

Ci aspetta un’America molto assertiva ed in maniera esplicita, insomma, che non è però affatto una novità della loro storia e che ricerca la solidarietà in primis degli anglosassoni e poi di tutti i Paesi bianchi e non perché sia in preda a ritorni razzistici, ma perché prende atto che in molti altri Paesi gli americani (e anche noi) siamo visti solo sotto questa angolazione.

In conclusione, anche oggi che credo di conoscerlo meglio, non modificherei l’atteggiamento che avrei tenuto, da convinto libertarian, se fossi stato americano e non un abitante della periferia dell’Impero e cioè di non sceglierlo affatto alle primarie, ma di votarlo sicuramente alla elezioni di novembre contro la cupola “politically correct” e la sua cinica politica pericolosa per la libertà e per la pace (ed anche per la democrazia come dimostrano le manifestazioni di intolleranza). Anche perché di quella cupola Barack Obama era in fondo il più moderato e saggio, gli altri molto peggio.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:16