Secessione: inorridisce   il “libertario di regime”

Refoli secessionisti spirano a nord del Vallo di Adriano. Dopo la Brexit, pur di rimanere in Europa molti scozzesi hanno lanciato la proposta di un referendum per dare l’addio al Regno Unito.

“Se vincerà Donald Trump i californiani chiederanno la secessione”, aveva dichiarato durante la campagna presidenziale americana Marcus Ruiz Evans, uno dei leader di Yes California, movimento separatista californiano. “Se vincerà la Hillary Clinton faremo la rivoluzione – avevano risposto in Nevada i sostenitori più convinti di Trump, quelli dello slogan ‘Hillary for Prison 2016’ stampato sulle magliette – e il nostro esercito non si rivolterà contro di noi”.

Ha vinto Trump e la suggestione indipendentista agita più che mai la West Coast, avverte il “San Diego Union-Tribune”.

L’integrità dello Stato-Nazione è un dogma presso ogni cultura politica, la sua messa in discussione un tabù ma per l’opinione colta al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico. Chi prova ad interrogarsi sulla sua legittimità viene bandito da ogni consesso civile, vede sbarrate le porte di qualsiasi salotto che voglia conservare un minino di rispettabilità. Paria, infrequentabile, il sostenitore del diritto di secessione è guardato con fastidio, ha scritto l’economista e libertario statunitense Lew Rockwell, anche dal “libertario di regime”, quel sedicente libertario che dice di credere “nell’economia di mercato, più o meno. Ma parlategli della Federal Reserve o della teoria austriaca del ciclo economico e diventerà irrequieto”; che “ama l’idea di riforma, che si tratti di Federal Reserve, di leggi fiscali, scuole pubbliche, qualsiasi cosa ma rifugge l’idea di abolizione. Che volete, quella proprio non è rispettabile!”; che “è contro la guerra, qualche volta, ma certamente non come principio generale. Si può infatti fare affidamento su di lui per il supporto alle guerre che hanno definito nella pratica il regime americano, e che sono ancora popolari tra il pubblico generico”; che “se messo all’angolo, con riluttanza può appoggiare la secessione ad un livello teorico, ma in pratica egli generalmente sembra a favore solo di quegli atti di secessione che hanno l’approvazione o la connivenza della Cia”.

Eppure, chi riesca a non farsi terrorizzare dalle campagne di demonizzazione delle élite di governo e dei ceti intellettuali a esse organiche, tese a squalificare come retrograda, antimoderna e meschina qualsiasi posizione non pregiudizialmente ostile a riconoscere il diritto di secessione, non può che arrivare ad ammettere, con Rockwell, la fondatezza della seguente tesi, perfino banale nella sua autoevidenza: “È moralmente illegittimo adoperare la violenza dello Stato contro gli individui che scelgono di raggrupparsi in modo differente da come il regime esistente ha scelto di raggrupparli”.

I libertari non di regime possono peraltro trovare nella storia americana autori da portare orgogliosamente sugli scudi; Lysander Spooner e Frank Chodorov, tra gli altri, stanno lì a dimostrare, continua ancora Rockwell, che la storia del libertarismo non è stata e non è frequentata solo da abusivi e impostori. Lysander Spooner, infaticabile antischiavista del XIX secolo, ebbe però l’ardire di affermare, a proposito della guerra civile americana, che “il principio, sul quale la guerra fu combattuta dal Nord, era semplicemente questo: che gli uomini possono essere legittimamente obbligati a sottomettersi a un governo che non vogliono, e a supportarlo; e che la resistenza, da parte loro, li rende traditori e criminali”. Facile capire come nella libreria di noce massello del libertario di regime non possa trovare ospitalità l’autore di No Treason, una collezione di tre saggi in cui Spooner argomentava che la costituzione americana, come ogni contratto, può vincolare solo i contraenti e non già coloro che, nel momento in cui fu scritta, non erano neanche nati.

“Nessun popolo e nessuna parte di un popolo dovrebbe essere mantenuta contro la propria volontà in un’associazione politica che non vuole”, ha teorizzato Ludwig von Mises.

E il “Mises Institute” ha ripubblicato qualche anno fa i lavori di quel Frank Chodorov, libertario della Old Right, antimperialista ed antinterventista, che ha osservato che “quando l’individuo è libero di trasferirsi da una giurisdizione all’altra, è posto un limite a quanto il governo può usare del suo monopolio di potere. Il governo è tenuto a freno dalla paura di perdere i cittadini che pagano tasse, proprio come la perdita di clienti tende a frenare altri monopoli dal diventare troppo arroganti”. Il diritto di secessione come arma, allora, cui non rinunciare e impugnare quando non si condividono le scelte del detentore monopolistico della violenza istituzionalizzata.

Da Jefferson a Rothbard si snoda così un pensiero che ha il suo fil rouge, come ci ricorda costantemente il filosofo liberale classico Carlo Lottieri, nella convinzione che la possibilità di scelta tra diverse e concorrenti istituzioni politiche possa favorire la nascita di ordini spontanei, policentrici e fondati non sulla costrizione ma sul consenso.

Perlomeno da una decina di anni a questa parte, poi, la bandiera del secessionismo ha iniziato a essere issata anche a sinistra. Thomas Herbert Naylor, economista e attivista politico, morto nel 2012, fondò nel 2003 la “Second Vermont Republic”, un movimento secessionista “left-libertarian, anti-big government, anti-empire, antiwar”.

Ma il diritto alla secessione è stato difeso anche da chi non ritiene che essa sia la soluzione sempre preferibile. Il liberal Christopher H. Wellman ha così affermato che “come uno può difendere il divorzio delle coppie sposate essendo al tempo stesso persuaso in maniera assai netta che le persone troppo spesso sbagliano a separarsi”, allo stesso modo si può difendere “il diritto alla secessione anche senza essere fautori della disgregazione degli Stati”.

(*) Professore associato in Storia contemporanea - Università degli Studi Roma Tre

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:10