Usa: ha vinto Trump, e adesso che succede?

Il “Trump Train” è arrivato a destinazione: alla Casa Bianca. Ci hanno provato tutti a farlo deragliare, in tutti i modi possibili. Ci hanno provato i Repubblicani, nei lunghi mesi delle primarie. Ci hanno provato i Democratici e l’intero “quarto potere” dei media statunitensi, durante la campagna delle presidenziali. Ci ha provato lui stesso, sciorinando una gaffe dietro l’altra, roba da far licenziare interi staff, frasi che avrebbero compromesso la carriera di qualunque candidato, anche a livello locale, figuriamoci per un aspirante presidente. Donald Trump ha vinto proprio perché ha detto e fatto ciò che avrebbe fatto perdere qualunque politico: perché non è un politico. È il primo caso nella storia degli Stati Uniti in cui vince un candidato che non ha mai servito lo Stato, né come politico, né come militare.

È stato votato da un popolo contrario alla sua classe politica. Ha vinto le primarie sull’onda della disaffezione di deputati, senatori e candidati presidenti repubblicani che non hanno saputo interpretare il malumore della base. È stato infine votato da tutto l’elettorato americano, deluso da una classe dirigente (non solo politica) che non è ancora riuscita a garantire gli stessi livelli di benessere, crescita e prospettiva che c’erano prima della grande crisi del 2008. Proprio la sfida a tutti i cliché del politicamente corretto ha permesso a Trump di presentarsi come un “uomo della strada” (che non è) che sfida il potere politico di Washington. Le sue battute sessiste sulle donne, i suoi flirt extra matrimoniali carpiti dai fuori-onda, le sparate contro i messicani dipinti in modo stereotipato e brutale, le condanne alla concorrenza sleale cinese, il suo modo di sciorinare menzogne a raffica, puntualmente smentite, con l’aria di quello che si sta facendo beffe dei media, sono tutte prove della sua estraneità alle logiche del potere politico, col suo linguaggio e i suoi codici di comportamento.

Proprio perché è estraneo all’ambiente politico, Trump potrebbe durare molto poco prima di essere travolto da uno scandalo. Almeno così sperano i suoi rivali. Ma a ben vedere, se non ce l’hanno fatta ad abbatterlo finora, è più difficile che ci riescano dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. A dire il vero, hanno provato a fermare la sua corsa in tutti i modi, con accuse di evasione fiscale (smontate: Trump non ha pagato tasse nella misura consentita dalla legge), con una donna dietro l’altra che lo accusavano di molestie (nessuna provata, molte ritrattate), con fuori-onda datati in cui sparava battute sessiste. Il Gop ha minacciato più volte di tagliargli i fondi, il suo stesso partito ha concentrato la campagna più sui candidati senatori e deputati che non sul presidente. Nessuno credeva che avrebbe vinto. Hanno tirato in ballo persino sua moglie, Melania, rispolverando l’inizio della sua carriera di modella in America quando non aveva ancora un permesso di lavoro e non avrebbe potuto essere impiegata. Tutto inutile.

Al tempo stesso, i media hanno sistematicamente ignorato scandali ben più macroscopici che riguardavano Hillary Clinton: l’email gate (il server personale di Hillary usato per gestire la posta elettronica del Dipartimento di Stato), i finanziamenti e le collusioni della Clinton Foundation, lo scandalo dei coniugi Weiner, suoi strettissimi collaboratori.

Mai nessuno è stato tanto delegittimato, insultato, ammonito quanto Trump, a livello nazionale e internazionale. Le cancellerie europee hanno abbandonato la loro neutralità diplomatica per schierarsi apertamente con la Clinton. I quotidiani, a partire dal “New York Times”, hanno dato ai loro giornalisti la disposizione di mescolare fatti e opinioni, proprio per l’esigenza di demonizzare e delegittimare il candidato repubblicano. I giornalisti che hanno avuto dagli editori il permesso di finanziare le campagne elettorali, nel 96 per cento dei casi hanno donato i loro soldi alla Clinton. Il 91 per cento dei servizi sui tre maggiori network nazionali sono stati critici od ostili nei confronti di Trump. Nemmeno il “Wall Street Journal” e “Fox News”, di area conservatrice, sono stati teneri nei confronti di un repubblicano troppo atipico anche per loro.

E adesso? Significativo il comportamento dell’Huffington Post. La testata progressista, che inizialmente aveva relegato le notizie su Trump nella cronaca degli spettacoli (declassandolo “al livello di una Kim Kardashian”), ha poi riservato alcuni dei più pesanti attacchi contro il candidato, fino all’ultimo giorno, fino all’ultima ora. Finché non ha ritirato il suo ultimo editoriale di primo piano, pieno di epiteti come “razzista”, “sessista”, “xenofobo”, per rispetto alla neo-acquisita autorità presidenziale. Ad annunciare la vittoria del presidente, su Fox News, è stata la giornalista Megyn Kelly, la prima ad accusarlo apertamente di sessismo ed a litigare con il candidato alle primarie repubblicane. Sarà l’atteggiamento di tanti altri, a partire dai Repubblicani che lo hanno osteggiato fino all’ultimo, dei “never Trump”, dell’ostile John McCain, del tiepido Marco Rubio, degli ex presidenti Bush (padre e figlio) e dell’ex segretario di Stato Colin Powell, dei neoconservatori riuniti attorno alla rivista “The Weekly Standard” e tantissimi altri. Adesso sono in una posizione obiettivamente imbarazzante: per non bruciarsi dietro al candidato “perdente”, si sono involontariamente bruciati la posizione.

Si dice anche che un uomo così estraneo alla politica non saprà governare in un momento difficile. È probabile. Ma molto dipenderà dalla squadra che Trump si saprà scegliere per formare la sua amministrazione. Fra i suoi supporters figurano politici di primo piano e di grande esperienza, fra cui il mitico sindaco della “tolleranza zero” che trasformò New York: Rudolph Giuliani. E poi c’è il governatore del New Jersey, Chris Christie, un’altra figura di successo: dopo un brevissimo tentativo di corsa alle presidenziali, ha mostrato sin da subito interesse per Trump. È ancora troppo presto per capire quale sarà realmente la politica del nuovo presidente. Meno tasse, protezionismo e isolazionismo, lotta all’immigrazione clandestina e al terrorismo sono stati gli slogan che lo hanno caratterizzato sia nelle primarie che nelle presidenziali. Come si articoleranno queste politiche, è tutto da vedere.

Da italiani, da europei in generale, dobbiamo comunque prepararci a un più rapido disimpegno degli Stati Uniti. All’isolazionismo soft di Barack Obama, di questi ultimi otto anni, potrebbe subentrare un isolazionismo molto più marcato del nuovo presidente. La Nato stessa potrebbe essere messa in discussione: non dobbiamo più attenderci che gli Stati Uniti contribuiscano ai due terzi delle spese della nostra difesa. L’Europa, insomma, farebbe bene ad attrezzarsi per stare sulle sue gambe.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:05