La ricetta di “Pipes”  per le Presidenziali Usa

Daniel Pipes, interprete autorevole del neo-conservatorismo anglosassone, ha presentato la sua idea per uscire dall’impasse sulla scelta del prossimo presidente degli Stati Uniti. La ricetta è contenuta nell’articolo “Cosa dovrebbe fare un conservatore? Votare Pence”, pubblicato ieri l’altro dal nostro giornale.

Pipes fonda la premessa del suo ragionamento su un’impietosa valutazione dei due candidati in corsa: Donald Trump e Hillary Clinton. Per lui hanno entrambi personalità ripugnanti e disdicevoli. Nessuno dei due meriterebbe di essere votato. Tuttavia, la possibile via di fuga, rappresentata dalla scelta del terzo incomodo Gary Johnson del Partito Libertario, è impraticabile. Allora, cosa sperare? Che Trump, portato sugli scudi alla Casa Bianca da un elettorato fortemente scosso da pulsioni antisistema, spiani la strada al “vice” Mike Pence. Per Pipes sarebbe quest’ultimo il più meritevole di abitare alla Casa Bianca perché è tutto ciò che Trump non è: colto, preparato sulla politica estera, brillante, cortese. Insomma: il degno erede di Ronald Reagan. Ma come avverrebbe il cambio del cavallo in corsa?

Pipes delinea uno scenario da thriller. Posto che il rozzo Trump ha più scheletri che abiti nel suo armadio, una volta che sia stato proclamato vincitore non dovrebbe essere difficile detronizzarlo. Una procedura di impeachment lo attenderebbe alla prima fesseria “presidenziale” commessa o al primo scandalo manovrato ad arte. Con un Congresso sostanzialmente ostile, non solo sul versante democratico ma anche su quello repubblicano che non lo ama e non chiede di meglio che disfarsene, la sua sostituzione con il vice presidente Pence sarebbe inevitabile. L’anomalia, in questo modo, verrebbe sanata e tutto tornerebbe alla normalità. Peccato, però, che il pendolo della Storia si muova in direzione dell’“anomalia”. L’opinione pubblica di parte repubblicana ha dato segni evidenti d’insofferenza nei confronti del vecchio partito nel quale fatica a riconoscersi. Se non fosse stato così Trump non avrebbe vinto a mani basse, da outsider, le “Primarie” polverizzando tutti gli altri competitors, a cominciare da quelli più graditi alla dirigenza del Gop.

Pipes chiude gli occhi di fronte a una crisi seria di credibilità dell’establishment repubblicano che sconta l’interruzione del dialogo con le classi medio-basse della società americana, preferendo la scorciatoia della congiura di palazzo. Trump, nelle intenzioni di Pipes, dovrebbe scuotere l’albero e poi farsi da parte perché Pence ne raccolga i frutti. Sembra un’ipotesi surreale. “The Donald”, da presidente, venderà cara la pelle. Probabilmente, se provassero a fargli scarpe, gli farebbero perfino un favore perché lo trasformerebbero agli occhi dell’opinione pubblica in un eroe: il cavaliere solitario dei “Western” che lotta contro i cattivi. L’odio per il personaggio ha offuscato la lucidità d’analisi dell’ottimo Pipes. Ma non è il solo, di questi tempi, a prendere abbagli. Capita anche ad alcuni brillanti “cervelloni” nostrani di scambiare la realtà con i desideri. Il sogno proibito, infatti, di alcuni dirigenti politici della destra occidentale è di cavalcare la protesta sociale al solo scopo di avere i numeri per governare. Ma non è così che funziona. Oggi la domanda di democrazia degli elettorati si focalizza sulla richiesta di maggiore coerenza tra i programmi degli aspiranti governanti e gli interessi dei blocchi sociali di riferimento. Se le élite vogliono restare al comando devono confrontarsi lealmente con i propri bacini elettorali dichiarando apertamente le loro intenzioni. È finito il tempo nel quale la mosca, comodamente poggiata sul dorso del bue, possa dirgli, al tramonto del sole, “abbiamo arato”.

Se Mike Pence è la persona di valore descritta da Pipes avrà cura di fare lealmente il suo mestiere di vice, tenendosi alla larga dalla tentazione di favorire colpi di mano. Perché, come Hollywood insegna, i traditori non vincono mai.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:10