Quorum e migranti:   il gulasch ungherese

Domenica scorsa l’Ungheria avrebbe dovuto decidere se accettare o respingere il piano di reinsediamento di una quota di migranti previsto dall’agenda europea. Ma non l’ha fatto: il test referendario è stato dichiarato invalido perché non è stato raggiunto il quorum della metà più uno degli aventi diritto al voto. Alle urne si è recato il 43 per cento dei cittadini.

Ad una prima lettura il premier Viktor Orbán sarebbe stato sconfitto nei suoi propositi di tenere fuori dell’uscio di casa gli eurocrati dell’Unione europea, almeno sulla questione migratoria. La sinistra continentale interpreta il risultato come una battuta d’arresto delle forze populiste e xenofobe. Invece, Orbán festeggia reclamando la vittoria della propria linea d’intransigenza verso l’Europa. Chi ha ragione? Se il passaggio referendario venisse osservato attraverso una doppia lente si potrebbe concludere che entrambe le parti dicano il vero.

Il 57 per cento della popolazione che ha scelto l’astensione darebbe ragione ai fautori della linea dell’accoglienza. Tuttavia, benché il rifiuto ad esprimersi fosse una precisa indicazione data da tutte le forze di opposizione al governo di Viktor Orbán, appare discutibile che si possa attribuire meccanicamente l’insieme dei non-votanti al fronte europeista pro-immigrati. D’altro canto, non può essere taciuto il dato dei voti espressi: il 95 per cento di coloro che si sono pronunciati ha detto “no” all’intromissione dell’Unione europea nelle decisioni nazionali sull’accoglienza, dando ragione ad Orbán.

Sebbene il mancato raggiungimento del quorum invalidi il referendum, nondimeno il risultato del conteggio deve essere preso in seria considerazione. Il coro dei laudatori delle “porte aperte” agli immigrati insiste nel definire inutile la prova a cui il governo di Budapest ha chiamato i suoi concittadini. Ma è vero il contrario. Dopo mesi di molte analisi fondate sui “sentiment”, soltanto oggi è possibile stabilire con provata certezza quali “visioni” del futuro comunitario raccolgano il consenso delle comunità territoriali. L’Ungheria, con circa 10 milioni di abitanti, dal punto di vista demografico non è una realtà di primaria grandezza come invece lo è la Gran Bretagna che lo scorso giugno ha deciso, con un altro referendum, di lasciare l’Unione. Tuttavia, la collocazione geografica nel cuore della Mitteleuropa e un passato da Stato-satellite dell’Unione Sovietica fanno dell’Ungheria una preziosa cartina di tornasole per la verifica dell’effettivo grado di condivisione dell’ideale federativo europeo. La vicenda ungherese ci interroga oltre il dato circoscritto all’orientamento di un singolo Stato, proiettando una luce su tutti i Paesi che fungono da cerniera orientale dell’area Ue.

Bisognerebbe ammettere ciò che finora si è preferito tacere: la maggior parte dei Paesi dell’ex blocco comunista ha accettato di entrare nell’Unione come pedaggio obbligato per assicurarsi la ben più ambita collocazione sotto l’ombrello protettivo della Nato. Diventa, quindi, inevitabile che le problematiche vissute alla stregua di emergenze continue dai Paesi del Sud dell’Unione vengano avvertite come secondarie da quegli Stati del Nord-Est la cui priorità è la difesa contro la supposta minaccia costituita dalla contiguità territoriale con l’ex dominus russo. Il fatto che, in sede di vertice europeo, questi Paesi, grazie anche all’aiuto interessato della Germania, abbiano fatto blocco aiuta a comprendere il senso di alcune decisioni devastanti per gli interessi nazionali degli Stati del Sud, in testa l’Italia.

Il risultato referendario ungherese ha offerto una rappresentazione della realtà di cui essere consapevoli: questa Unione europea è simile ad una barca nella quale gli occupanti non remano nello stesso verso. Il rischio è che, avvitandosi, la barca venga risucchiata dal vortice che essa stessa ha creato.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:05