Bombe americane sganciate su Sirte

Barack Obama bombarda la roccaforte dello Stato islamico a Sirte, in Libia. Di regola saremmo contenti di una notizia del genere, ma non lo siamo. C’è qualcosa in questo sussulto bellicoso della Casa Bianca che non quadra. Finora l’amministrazione statunitense ha detto in tutte le salse che non si sarebbe fatta coinvolgere nel quadrante mediterraneo ed ora, invece, passa all’attacco? È bastata una telefonata del traballante premier tripolino Fayez al-Sarraj per fare cambiare idea ai capoccioni di Washington? E poi che tempismo! Dopo pochi minuti dalla richiesta ufficiale inoltrata dal governo di Tripoli la caccia aerea a stelle e strisce era già sui cieli di Sirte a fare il suo mestiere.

Cosa ne pensa l’ammiraglio Enrico Credendino, comandante della missione Eunavfor Med voluta dall’Unione europea a largo delle acque libiche, che si vede passare sulla testa i bombardieri americani? Tace anche il solitamente loquace Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, forse perché troppo impegnato a pianificare la guerra mondiale prossima ventura. Sarà che quando c’è di mezzo il signor Obama a noi viene la pelle d’oca. Intendiamoci, finché si prendono a cannonate gli scarafaggi dell’Is va sempre bene ma resta lo sconcerto per una decisione che, per l’ennesima volta dal 2011, di fatto scavalca l’Italia negandole quel ruolo guida che dovrebbe esercitare nella gestione della questione libica. Perché, lo ripeteremo fino allo sfinimento, la Libia è affare italiano, non americano o di qualcun altro. Al-Sarraj se aveva bisogno d’aiuto avrebbe dovuto contattare Roma prima che Washington. Ma ci ha ignorato.

La verità è che da quando a Palazzo Chigi ci sono governi eterodiretti dalle stanze di Bruxelles, mister Matteo Renzi compreso, non contiamo nulla. Basta leggere la dichiarazione del nostro ministro degli Esteri a commento dell’iniziativa statunitense: è un capolavoro. Paolo Gentiloni guarda e si compiace dell’iniziativa americana. Sembra uno spettatore a una partita di tennis a Wimbledon: valuta il punto segnato con la medesima flemma di un gentiluomo anglosassone. Ma la realtà sta da un’altra parte. Sotto la superficie dei raid umanitari sguazzano spregiudicati interessi economici e geopolitici. C’è in Cirenaica il generale Khalifa Haftar che toglie il sonno al governo di Tripoli combattendo la minaccia jihadista a modo suo con lo sfacciato appoggio di Parigi. Quella Francia che in Libia balla da sola fregandosene delle soluzioni “unitarie” incollate con lo sputo dagli emissari dell’Onu.

C’è poi il conflitto diplomatico in atto tra gli Usa e la Turchia dopo il fallito golpe. Finora Washington era stata molto attenta a non contrastare gli interessi di Ankara nella partita libica. Ma da quando Erdogan ha accusato gli Stati Uniti di aver segretamente tramato per rovesciarlo, Washington doveva rispondergli in qualche modo. E le bombe su Sirte potrebbero essere proprio un “warning” lanciato al riottoso alleato turco perché capisca l’antifona. Sullo sfondo c’è anche l’ossessione americana di contrastare colpo su colpo l’odiato concorrente russo il cui peso geopolitico sta rapidamente aumentando. Specialmente nel Mediterraneo. Ma l’errore più grande che Obama possa commettere è di usare lo specchietto libico in funzione della campagna presidenziale in corso nel suo Paese. Posto che la lotta all’integralismo islamico debba essere un imperativo categorico per la morale occidentale, le azioni a scopo tattico-propagandistico, non risolvendo il problema alla radice, rischiano di innescare la pericolosa reazione istintiva della belva ferita. Una recrudescenza del terrorismo islamico sul suolo americano, in risposta alle bombe di Sirte, non aiuterebbe come nelle intenzioni di Obama la già poco amata signora Hillary Clintona a recuperare consensi. Al contrario, l’affonderebbe definitivamente. Non che la cosa ci dispiaccia. Comunque la si giri, resta il solito Barack combina- disastri.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:05