Dacca, la complessità del male

Ancora sangue e una parola che risuona con sinistri accenti: jihad. È accaduto a Dacca, capitale e vetrina del nuovo Bangladesh. Sangue italiano rubato. Vite spezzate. Agnelli immolati alla gloria dell’unico dio dell’odio e della vendetta. Non tra gli oceani di sabbia del Fezzan o tra gli infidi vicoli della Kasbah di Algeri. Non tra carretti debordanti di povere mercanzie al mercato sciita di Sadr-City. Non sotto le palme ritte schierate come soldati dell’esercito di Madre-Natura lungo l’assolata promenade di Eilat. Lontani gli spettri dei talebani afghani vaganti tra le yurte prese ai pastori kyrghizi, sopra le impervie cime del Pamir. E neppure Parigi, la “Marianna”, Triomphe de la République, a mezza via tra l’XI e il XII arrondissement. O Bruxelles, all’uscita della metro di Maelbeek in un giorno di punta. Nessun altro luogo più distante di Dacca per andare a procurarsi rabbia e dolore.

Ammettiamolo: non avevamo previsto che il nemico potesse giungere in quelle terre appartenute alla fantasia della nostra giovinezza più che alla crudezza del mondo reale. Per chi ha una certa età il Bengala è quello raccontato attraverso la lente dell’immaginario salgariano. È bengalese Tremal-Naik, il fiero guerriero che la penna di Emilio Salgari pose al fianco di Sandokan, a simbolo di fedeltà e di coraggio. Tigri del Bengala, lancieri del Bengala e la valle del Gange da sfondo alle esotiche atmosfere della “moglie indiana” di Anne Cherian. E poi l’implacabile teoria di piogge alluvionali portate dai monsoni che fanno strage di vite e di storia con disperante puntualità. Come quella terribile del 13 novembre 1970. I morti si contavano a centinaia di migliaia: una carneficina di proporzioni bibliche. Arriva la globalizzazione e il Bangladesh, dalle apparenze giovani e democratiche, si scopre tessile. Pullulano le fabbriche di abbigliamento a cui gli occidentali strizzano l’occhio ed aprono il portafoglio. Dentro quel mondo semisommerso come le terre alluvionali della pianura, c’è di tutto: lavoro nero, sfruttamento minorile, sicurezza zero, salute sottozero. 24 aprile 2013: Savar, periferia di Dacca, crolla un palazzo occupato da una miriade di piccolissime fabbriche tessili. I morti sono 1129. Tutti operai, tutti sfruttati. Sopra le macerie, ben visibili, si scorgono, tra le altre, anche le impronte di qualche grande marchio italiano, preso e compreso nel dare di sé l’immagine patinata di promotore di pace nel mondo, come in un refrain di Miss Universo.

Il morbo jihadista non era nel nostro ridotto orizzonte visivo, neppure quando ha ucciso Cesare Tavella, il cooperante italiano “malato” d’amore per il Bangladesh. Eravamo fermi all’idea di un jihadismo da giungla, da foresta tropicale, fatto di archeologia ideologica terzomondista mischiata all’integralismo della radice indiana dell’Islam. Ci si aspettava che a colpire fossero i figli prediletti del califfo nero al- Baghdadi, asserragliato nel ridotto siriano di Raqqa: i disperati del “nuovo mondo”, gli sconfitti di tutte le guerre, la carne in scatola servita alla tavola del capitalismo transfrontaliero. Invece la strage dell’Holey Artisan Bakery l’hanno compiuta sette ragazzi della buona borghesia bengalese. Ricchi, istruiti, forse annoiati, studenti modello di costose università private, questi mocciosi tra un selfie e una corsa in auto si sono inventati angeli sterminatori. Giustizieri della notte in nome di Allah. Raccontano i testimoni: chi conosceva il Corano aveva salva la vita, per gli altri, Al- Kâfirûn, i miscredenti, lo sgozzamento, come il profeta comanda.

Più Arancia Meccanica che jihad nel film dell’orrore girato nella notte di Dacca. Forse è una comoda spiegazione per le autorità di governo del Paese che non vogliono si parli di Is. E anche un modo per non dover giustificare la sconvolgente inerzia della polizia locale, che si è goduta la scena per dieci ore prima di intervenire. I giovani, si sa, possono essere indecifrabili ma l’immagine che Dacca ci restituisce è quella dell’ennesima faccia del camaleontico jihadismo con cui dovremo imparare a fare i conti.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:06