Fratelli in armi

Chase Millsap è un americano di 33 anni, ex Marine ed ex Berretto Verde, l’élite dell’esercito a stelle e strisce, che ha trascorso dal 2006 al 2009 nell’inferno iracheno, distaccato in unità operative combattenti nelle zone di Falluja, Tikrit e Mosul. Chase è stato decorato con la medaglia della stella di bronzo per atti di eroismo durante il suo servizio in Iraq, uno dei riconoscimenti più alti dell’esercito americano; ma è soprattutto un uomo di parola, che crede fermamente nei valori dell’amicizia e della gratitudine. Un uomo di altri tempi insomma.

È per questo che da quando è rientrato a casa in Sud California e ha smesso l’uniforme, il suo principale obiettivo è stato quello di far ottenere l’asilo negli Stati Uniti al suo “fratello d’armi” iracheno, un capitano dell’esercito regolare di Baghdad con cui ha lavorato durante i turni passati in Iraq. Il “capitano”, del quale si conosce solo il nome di battesimo, Saed, per salvaguardarne la sua incolumità, vive ora in Turchia, in una baracca, scappato dal nord dell’Iraq con la sua famiglia dopo aver ricevuto minacce di morte da parte dei terroristi di Daech.

Fino al ritiro delle truppe americane dall’Iraq, Saed era a capo di un’unità dell’esercito iracheno responsabile per i collegamenti con il contingente americano di stanza nel nord Iraq. Con il capitano Millsap si era trovato spesso di pattuglia per le strade di Falluja, una delle zone più pericolose dell’Iraq nel dopo Saddam, e una volta gli aveva anche salvato la vita, gettandolo a terra mentre un cecchino aveva preso di mira l’ufficiale americano. Saed si era poi contraddistinto in altre occasioni, sempre per generosità e coraggio; molti soldati americani che hanno servito e rischiato la vita nelle zone intorno a Falluja lo ricordano con gratitudine.

Ma non così l’amministrazione americana, che ha di fatto abbandonato tutti i “collaborazionisti” al proprio destino. Alla partenza delle truppe statunitensi dall’Iraq nel dicembre del 2011, moltissimi iracheni, militari e civili, che avevano lavorato con gli americani in qualità di interpreti o ufficiali di collegamento, sono stati oggetto, specialmente nelle zone sunnite settentrionali, di sanguinose rappresaglie da parte degli estremisti islamici e degli uomini del califfo nero Abu Bakr al-Baghdadi, i più brutali. Quando il califfato si è affermato in quelle aree, per quegli iracheni non c’è stata altra via di scampo se non la fuga precipitosa. Anche il trentasettenne capitano Saed si è trovato nella lista dei condannati a morte dei jihadisti di Daech ed è riuscito miracolosamente a fuggire in tempo in Turchia. Da allora vive in condizioni disagiate con un figlio di tre e una figlia di quattro anni e la moglie malata, in un container situato accanto ad un campo profughi allestito dalle Nazioni Unite. La sua sola speranza è di poter avere un giorno il permesso di emigrare in quel Paese, gli Stati Uniti, i cui soldati ha aiutato con coraggio, a costo della sua stessa vita.

La fortuna di Saed, in questa storia tragica, è di aver ritrovato il suo commilitone americano, il marine Chase Millsap al quale ha salvato la vita; Millsap gli ha promesso che non si darà pace fino a quando non sarà riuscito a fargli avere il permesso di asilo negli Stati Uniti, per lui e per la famiglia. È per questo che l’ex Marine, insieme ad altri veterani provenienti dall’Iraq e tutti con debiti di gratitudine verso i colleghi iracheni, hanno fondato un’associazione non profit per aiutare quanti hanno combattuto a fianco dei soldati americani in zone di guerra. Millsap e i suoi colleghi sperano di convincere la Casa Bianca e il Congresso ad approvare leggi di accoglienza in favore di quelle persone. Forse sanno che senza l’aiuto di quegli iracheni, i loro “fratelli in armi” che hanno rischiato tutto per loro, i soldati americani morti in Iraq da marzo del 2003 al dicembre del 2011 sarebbero stati ben più di 4500.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:41