I sessantotto anni dello Stato di Israele

Si celebra questa settimana il sessantottesimo anniversario dell’Indipendenza di Israele, e lasciatemelo dire sinceramente: quando si tratta di Israele, mi lascio trascinare dalle passioni. La fondazione dello Stato nel 1948; il coronamento della visione del ruolo di Israele come casa e rifugio per gli ebrei di tutto il mondo; l’aver abbracciato a piene mani la democrazia e lo stato di diritto; i risultati impressionanti ottenuti nella scienza, nella cultura, nell’economia – è andato tutto ben oltre le più rosee aspettative.

Per secoli, gli ebrei di tutto il mondo hanno pregato per poter ritornare a Sion. Noi siamo tra i fortunati che hanno visto accolte le loro preghiere. Sono grato di poter essere testimone di questo periodo straordinario per la storia e la sovranità ebraiche. Nelle parole dell’inno nazionale israeliano, siamo “un popolo libero nella nostra terra, la terra di Sion e di Gerusalemme”.

E se aggiungiamo l’elemento cruciale, e cioè che tutto questo è accaduto non nel medio occidente ma nel Medio Oriente - dove i vicini di Israele decisero sin dal primo giorno di distruggerla con qualunque mezzo: dalla guerra vera e propria alla guerra di logoramento; dall’isolamento diplomatico alla delegittimazione internazionale, dai boicottaggi di prima, seconda e terza categoria; dal terrorismo alla diffusione dell’antisemitismo, spesso maldestramente velato dall’antisionismo - allora la storia dei primi 68 anni di Israele diventa ancora più importante. Nessun altro Paese ha dovuto affrontare sfide costanti al proprio diritto di esistere, malgrado l’antichissimo legame biblico, spirituale e fisico tra il popolo ebraico e la terra di Israele, che è un fatto unico negli annali della Storia.

È anzi un legame completamente diverso da quello, per esempio, su cui si basano la nascita degli Stati Uniti, dell’Australia, del Canada, della Nuova Zelanda o della maggior parte dei Paesi dell’America Latina, fondati da europei che non avevano nessun diritto legittimo su quelle terre, e che hanno sterminato le popolazioni indigene mentre proclamavano la propria autorità su quei luoghi. È un legame diverso anche da quello dei Paesi dell’Africa settentrionale, conquistati e occupati da invasori arabo-islamici che ne hanno completamente stravolto il carattere nazionale. Nessun altro Paese ha dovuto combattere probabilità di sopravvivenza tanto sfavorevoli, né ha dovuto affrontare lo stesso livello di incessante demonizzazione internazionale da parte di troppe nazioni pronte a gettar via la propria integrità e la propria moralità e piegarsi alla volontà dei paesi Arabi, più numerosi e ricchi di petrolio. Eppure gli israeliani non si sono mai lasciati andare alla mentalità dell’assedio, non hanno mai abbandonato il loro profondo desiderio di pace con i loro vicini e la loro volontà di accollarsi grossi rischi per poterla ottenere (come è successo con Egitto e Giordania, e con il ritiro unilaterale da Gaza, ad esempio), non hanno mai perso la voglia di vivere e non si sono mai lasciati distogliere dalla determinazione di costruire uno Stato vivace e democratico.

Il racconto della costruzione di questa nazione è un racconto senza precedenti. È il racconto di un popolo che si trovava sull’orlo dell’annientamento totale a seguito delle politiche di genocidio della Germania nazista e dei suoi alleati. È Il racconto di un popolo che si è trovato completamente impotente nel cercare di persuadere un mondo in gran parte indifferente a fermare, o almeno a rallentare, la Soluzione Finale. Ed è il racconto di un popolo di neanche 600mila persone, che vivevano in quella che era allora la Palestina Mandataria fianco a fianco ai vicini arabi spesso ostili, che vivevano sotto una occupazione britannica incurante della loro situazione, in una terra difficile, senza nessuna risorsa naturale se non il capitale umano. Sembra ancora incredibile che a soli tre anni dalla fine dell’Olocausto, e con il supporto di una maggioranza decisiva alle Nazioni Unite, si sia potuta piantare la bandiera blu e bianca di una Israele indipendente su questa terra, terra alla quale il popolo ebraico è intimamente legato sin dai tempi di Abramo. E per di più, che questa piccola comunità di ebrei - tra cui sopravvissuti dell’Olocausto che erano riusciti ad arrivare nella Palestina Mandataria nonostante il blocco navale britannico ed i campi di detenzione britannici a Cipro - si sarebbe potuta poi difendere con successo contro l’aggressione contemporanea di cinque eserciti permanenti arabi, è quasi oltre ogni immaginazione.

Per capire l’essenza del significato di Israele, basta chiedersi come sarebbe stata diversa la storia del popolo ebraico se fosse esistito uno Stato ebraico nel 1933, nel 1938, o nel 1941. Se Israele, invece del Regno Unito, avesse potuto controllare i propri confini e il diritto d’ingresso nel Paese, se Israele avesse avuto ambasciate e consolati in tutta Europa, quanti altri ebrei sarebbero potuti fuggire e ricevere asilo? E invece, gli ebrei poterono solo affidarsi alla buona volontà delle ambasciate e dei consolati di paesi terzi che purtroppo, se non con poche eccezioni, non ebbero ne la volontà né l’umanità di assisterli. Ho visto con i miei occhi cosa può significare un’ambasciata o un consolato israeliano per gli ebrei attratti dal richiamo di Sion o dalla spinta dell’odio degli altri verso di loro. Mi trovavo nel cortile dell’ambasciata israeliana a Mosca e ho visto migliaia di ebrei che cercavano di fuggire al più presto da un’Unione Sovietica in preda a cambiamenti epocali, impauriti dal fatto che questi cambiamenti potessero manifestarsi in una rinascita dello sciovinismo e dell’antisemitismo. Sono rimasto colpito quando ho visto da vicino come Israele non ha vacillato neanche un istante, quando evacuava gli ebrei sovietici verso la patria ebraica, anche mentre i missili Scud lanciati dall’Iraq traumatizzavano la nazione, nel 1991. La dice lunga sulle condizioni che si lasciavano alle spalle questi ebrei che continuavano a salire sugli aerei diretti a Tel Aviv, mentre i missili cadevano nei centri abitati israeliani. E infatti, in due occasioni mi sono trovato nei rifugi assieme a famiglie di ebrei sovietici che arrivavano in Israele sotto una pioggia di missili. Non hanno messo mai in discussione la loro decisione di rifarsi una vita nello Stato ebraico. E la dice lunga anche su Israele, che nel bel mezzo di questa crisi della sicurezza nazionale, riusciva ad accogliere nuovi immigrati senza battere ciglio.

E come potrò mai dimenticare il sentimento d’orgoglio – orgoglio ebraico – che mi ha sopraffatto 40 anni fa, nel luglio del 1976, quando ho sentito l’incredibile notizia del coraggioso salvataggio di 106 ostaggi ebrei che erano nelle mani di terroristi arabi e tedeschi ad Entebbe in Uganda, a più di 3mila chilometri da Israele? Il messaggio era chiaro: ovunque si trovassero, gli ebrei in pericolo non sarebbero mai più rimasti soli, rimasti senza speranza, e completamente dipendenti da altri per la propria sicurezza. E poi ricordo ancora come se fosse ieri la mia prima visita in Israele. Era il 1970, e non avevo ancora compiuto 21 anni. Non sapevo cosa aspettarmi, ma ricordo quanta emozione provai dall’istante in cui salii sull’aereo della El Al fino a quando posai lo sguardo sulla costa israeliana che cominciava a intravedersi dal finestrino. Mentre sbarcavo, sorpresi me stesso nel rendermi conto che volevo baciare la terra. Nelle settimane che seguirono, rimanevo incantato da tutto quello che vedevo. Per me, era come se ogni condominio, ogni fabbrica, ogni scuola, ogni aranceto e ogni autobus fossero un vero e proprio miracolo. Uno Stato, uno Stato ebraico, si stava materializzando davanti ai miei occhi. Dopo secoli di persecuzioni, di pogrom, di esili, di ghetti, di inquisizioni, di calunnie del sangue, di conversioni forzate, di leggi discriminatorie e di restrizioni all’immigrazione – ma anche dopo secoli di preghiere, di sogni e di desiderio – gli ebrei erano tornati a casa ed erano padroni del proprio destino.

Ero sopraffatto dalla varietà delle persone, della loro provenienza, delle loro lingue e delle loro abitudini, e dall’intensità della vita stessa. Sembrava che ognuno avesse una storia importante da raccontare. C’erano sopravvissuti dell’Olocausto con i racconti strazianti degli anni passati nei campi di concentramento. C’erano ebrei dei Paesi arabi, le cui persecuzioni in Paesi come l’Iraq, la Libia e la Siria erano allora ancora poco note. C’erano i primi ebrei che venivano dall’Urss per trovare una nuova patria nella terra ebraica. E c’erano i sabra – gli Israeliani nati sul posto – le cui famiglie avevano vissuto in Palestina per generazioni. C’erano gli arabi locali, sia cristiani che musulmani. C’erano i Drusi, le cui pratiche religiose vengono tenute nascoste al mondo esterno, ed altri ancora.

Non posso descrivere la commozione che ho provato quando ho visto Gerusalemme ed il fervore con cui gli ebrei di ogni provenienza pregavano al Muro del Pianto. Io venivo da una nazione che all’epoca era profondamente divisa e demoralizzata, mentre i miei compagni israeliani erano palesemente fieri del loro Paese, pronti a servirlo nelle forze armate e in molti casi, determinati ad offrirsi volontari per le truppe d’élite. Si sentivano coinvolti personalmente nell’impresa della costruzione di uno Stato ebraico, a più di 1800 anni da quando i romani soffocarono la rivolta di Bar Kochba, l’ultimo tentativo di ottenere la sovranità ebraica su quella terra.

Di certo la costruzione di una nazione è un processo enormemente complesso. Per Israele, è iniziato tra le tensioni con la popolazione araba del posto che accampava diritti sulla stessa terra, e che rifiutò tragicamente la proposta delle Nazioni Unite di dividere la terra in due Stati, uno arabo ed uno israeliano. È un processo iniziato mentre il mondo arabo cercava di isolare, di demoralizzare, e in definitiva, di distruggere Israele. È un processo iniziato mentre la popolazione israeliana raddoppiava nei primi tre anni dalla sua fondazione, mettendo a dura prova le già scarse risorse. È un processo iniziato mentre il Paese è stato costretto a dirottare gran parte del proprio già limitato budget nazionale alle spese per la difesa nazionale. Ed è un processo iniziato mentre il Paese cercava di forgiare una identità nazionale e un consenso sociale tra popoli che non avrebbero potuto essere geograficamente, linguisticamente, socialmente e culturalmente più diversi.

C’è poi la difficile e poco apprezzata questione dello scontro potenziale tra la caotica realtà di uno Stato da un lato e, in questo caso, tra gli ideali e la fede di un popolo dall’altro. Per un popolo una cosa è vivere la propria religione da minoranza. Cosa ben diversa è esercitare la sovranità in quanto popolazione maggioritaria rimanendo allo stesso tempo fedeli ai propri standard etici. Inevitabilmente, ci saranno tensioni tra l’auto-definizione spirituale o morale di un popolo e le esigenze della costruzione di uno Stato, tra la concezione più alta della natura umana e la realtà quotidiana di individui che devono prendere decisioni pratiche ed esercitare il potere mentre provano a districarsi ed a bilanciarsi tra gruppi di interessi diversi in competizione tra loro. Nonostante questo, le nostre aspettative devono per forza essere così alte da fare in modo che Israele – un piccolo Stato ancora in pericolo, che deve operare nel mondo duro e moralmente ambiguo della politiche e delle relazioni internazionali – non ne sarà mai all’altezza? Eppure, che Israele possa mai diventare eticamente indistinguibile da qualunque altra nazione, che si rifugia automaticamente dietro la facile giustificazione della realpolitik per spiegare i propri comportamento, è egualmente inaccettabile.

Gli israeliani, a soli 68 anni dalla nascita del proprio Stato, sono tra i nuovi praticanti dell’arte politica. Pur avendo ottenuto grandi successi, provate a pensare alle difficilissime sfide politiche, sociali ed economiche che hanno dovuto affrontare gli Stati Uniti a 68 o anche a 168 anni dall’indipendenza, o alle sfide che si trovano ad affrontare ancora oggi, tra cui ad esempio le persistenti disparità sociali. E non dimentichiamoci che gli Stati Uniti, al contrario di Israele, si trovano in un vasto territorio ricco di risorse naturali, con oceani ad est e ad ovest, un vicino gentile al nord ed uno più debole al sud. Come ogni vivace democrazia, l’America è un cantiere sempre attivo. E la stessa cosa vale per Israele. Amare Israele come lo amo io, però, non vuole dire chiudere un occhio di fronte ai suoi difetti, tra cui l’eccessiva e poco sacra intrusione della religione nella politica, l’imperdonabile emarginazione delle correnti religiose diverse dall’ebraismo Ortodosso, i pericoli posti dagli zeloti politici e religiosi e il compito - innegabilmente arduo e ancora incompleto – della piena integrazione degli arabi israeliani. Ma tutto questo non deve oscurare i notevoli risultati ottenuti da Israele, come ho detto, in circostanze difficilissime.

In soli 68 anni, Israele ha costruito una fiorente democrazia, unica nella regione, la cui Corte Suprema può - quando lo ritiene necessario - porre veti alle decisioni prese dal premier o dalle forze armate; e ha costruito un parlamento esuberante - al cui interno troviamo l’intero spettro delle ideologie politiche -, una robusta società civile e una stampa energica e libera. Ha costruito una economia sempre più basata sull’innovazione e sulle nuove tecnologie, il cui PIL pro capite è più alto di quello dei suoi quattro vicini messi insieme – l’Egitto, la Giordania, il Libano e la Siria. Ha costruito università e centri di ricerca che hanno contribuito all’avanzamento delle frontiere della conoscenza mondiale in innumerevoli modi, vincendo nel contempo una gran quantità di Premi Nobel. Ha costruito uno degli eserciti più potenti del mondo – esercito che rimane sempre sotto il controllo civile, vorrei aggiungere – per assicurare la propria sopravvivenza in una regione violenta e pericolosa. Ha mostrato al mondo come una piccola nazione, non più grande del New Jersey o del Galles può, tramite la forza dell’ingegno, della volontà, del coraggio e della determinazione, difendersi contro chi la vorrebbe distruggere con eserciti convenzionali o con eserciti di terroristi suicidi. E tutto questo, mentre ha fatto di tutto per aderire ad un severo codice di condotta militare che ha pochi rivali nel mondo democratico, per non parlare del resto del mondo, affrontando un nemico pronto a mandare bambini in prima linea ed a rifugiarsi nelle moschee, nelle scuole e negli ospedali. Ha costruito una qualità di vita che la pone tra i Paesi più salutari al mondo e con un’aspettativa di vita particolarmente alta, addirittura più alta di quella degli Usa. Ha costruito una cultura fiorente i cui musicisti, scrittori e artisti sono ammirati in luoghi ben lontani dai propri confini. E in tutto ciò, ha preso con amore un’antica lingua – l’ebraico – rendendola moderna in modo da ospitarvi il vocabolario del mondo contemporaneo.

Nonostante le voci intolleranti di qualche estremista, ha costruito un clima di rispetto per le altre fedi tra cui i baha’i, i cristiani e i musulmani, e per i loro luoghi di culto. C’è forse qualche altro Paese nella regione che può dire altrettanto? Ha costruito un settore agricolo che ha molto da insegnare ai Paesi in via di sviluppo per quanto riguarda trasformare terre aride in campi di frutta, di vegetali, di cotone e di fiori. Allontaniamoci un attimo dall’enorme flusso di informazioni che arriva di continuo dal Medio Oriente e consideriamo la portata degli ultimi 68 anni, a quanti anni luce di distanza siamo arrivati dal buio dell’Olocausto, e rimaniamo meravigliati da un popolo decimato che è ritornato su un piccolo fazzoletto di terra – la terra dei nostri antenati, la terra di Sion e di Gerusalemme – sfidando ogni probabilità e costruendo su queste antiche fondamenta un moderno e vibrante Stato.

In ultima analisi, la storia di Israele è una stupenda realizzazione di un legame che dura da 3500 anni tra una terra, una lingua, una fede, un popolo ed una visione. È una storia impareggiabile di tenacia e determinazione, di coraggio e di rinnovamento. In definitiva, è un metafora del trionfo della durevole speranza sulle tentazioni della disperazione.

 

(*) Direttore Esecutivo dell’American Jewish Committee

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:04