Intelligence e sicurezza: analizziamo Israele

Gli attentati terroristici in Europa rimettono al centro della discussione internazionale il rapporto tra intelligence, sicurezza e diritti che il continente europeo non riesce a gestire, facendo risaltare tutta la debolezza e la non unità dell’Europa anche in momenti tragici e cupi della nostra storia. Negli ultimi giorni si è molto discusso sulla visione di Israele nella gestione terroristica e sui consigli che possono essere percepiti anche dall’Europa. Ne parliamo con Dan Haezrachy, vice capo missione dell’Ambasciata d’Israele a Roma.

Israele è un Paese che con il terrorismo ci convive da decenni. Pur con tutte le difficoltà, come conciliare terrorismo, paura, certezza del diritto e la forza per sopravvivere?

Non serve neanche dirle che, purtroppo, Israele convive con la brutalità del terrorismo sin dalla sua creazione. Questo significa che i cittadini israeliani hanno dovuto obbligatoriamente accettare alcune limitazioni alla libertà – quali ad esempio numerosi controlli – per poter permettere alle forze di sicurezza di fare il possibile per sventare attacchi terroristici. Questo soprattutto dopo gli accordi di Oslo, quando alcune organizzazioni palestinesi hanno lanciato una vera e propria campagna di terrore contro i civili israeliani, allo scopo di affondare il processo di pace. La forza di sopravvivere, ad ogni modo, Israele la trova dalla sua stessa cultura ebraica, una cultura profondamente basata sulla Vita e sulla capacità di trovare il modo di esprimere se stessa anche nei momenti più difficili. Devo dire che Israele non solo può andare fiera di aver trovato una capacità di resistenza al terrore, ma di aver creato allo stesso tempo una società vivace e all’avanguardia.

Successivamente agli attentati dell’11 settembre sono aumentati i controlli in tutti i luoghi sensibili. È chiaro che gli attentatori cercano luoghi dove c’è un alto numero di persone e gli aeroporti, le stazioni delle metro o quelle ferroviarie sono luoghi emblematici dove far strage di cittadini. Gli israeliani usano una serie di tecniche che fino ad oggi hanno avuto successo. Può descriverci, per quello che può, quali sono queste tecniche?

Il terrorismo mira a colpire quelli che sono definibili come “soft target”, ovvero aree affollate dove massimizzare il numero di vittime. Questo permette ai terroristi non solo di avere una maggiore esposizione mediatica, ma anche di influire sui cambiamenti della vita quotidiana dei loro obiettivi. Per descrivere le tecniche ci sono ovviamente i professionisti della sicurezza, di cui sicuramente Israele – per forza di cose – abbonda. Detto questo, è ovvio che, se per un verso il terrorismo non deve cambiare le nostre abitudini, per un altro dobbiamo essere coscienti che i controlli di sicurezza aumenteranno e si intensificheranno. Questo implicherà piccoli cambiamenti nella vita del cittadino medio, a cui sarà richiesta una maggiore pazienza e flessibilità, per tentare di garantire al massimo la sua protezione. Dopo i terribili attentati di Bruxelles, i media hanno scoperto il cosiddetto “metodo israeliano”. Avremmo preferito che il metodo israeliano fosse scoperto senza dover vivere l’ennesima strage di innocenti civili. Ad ogni modo, Israele è disposto a collaborare pienamente con coloro che lo richiederanno, per esportare il suo expertise a chi vorrà conoscerlo.

La sicurezza israeliana si avvale molto degli studi di psicologia. Si tenta di identificare probabili attentatori sulla base di dati personali che vengono raccolti sul campo, ad esempio, osservando il comportamento individuale in aeroporto o dialogando con i passeggeri al check-in. Possiamo approfondire questo interessantissimo aspetto?

Come detto, mi occupo di diplomazia e non di sicurezza. Posso dire che, noi israeliani – e chi è abituato a visitare Israele – è ben consapevole che i controlli di sicurezza e la richiesta dei dati personali sono una prassi. Onestamente, questa pratica non è vista come un abuso della propria privacy, ma come necessità per la protezione della vita del cittadino e della sua stessa libertà individuale. Lo Stato, ovviamente, si impegna a sua volta a mantenere i dati dei cittadini e dei visitatori privati, usandoli unicamente per gli specifici fini richiesti e non per attività illegali. Un confine sicuramente sottile, ma che può essere sicuramente affrontato con successo dalle democrazie Occidentali. In Israele esiste un sistema di check and balance molto forte. Ergo, se per un verso le forze di sicurezza possono raccogliere dati, il loro uso prevede un costante controllo dell’organo giudiziario e la necessità di una preventiva autorizzazione di un magistrato, per eventuali indagini aggiuntive. A questo sistema di controllo legale, si affianca un sistema mediatico molto vivo, in cui l’informazione rappresenta se vogliamo, un mezzo di tutela dei diritti umani. Non credo che nessun altro Paese al mondo abbia saputo coniugare libertà di espressione, diritti umani e sicurezza, nello stesso modo di Israele.

Come tutelare lo Stato di Diritto dalla derive autoritaria, securitaria ed emergenziale che dopo gli avvenimenti francesi sta attanagliando il Continente europeo?

Conciliare la sicurezza con lo Stato di Diritto è una sfida importantissima e difficile. Costringerci a vivere nell’emergenza e nella paura è proprio quello che i terroristi sperano. Ciò, allo scopo di poter vantare di aver cambiato non solo le nostre abitudini, ma le nostre stesse regole. Ritengo che l’Occidente abbia abbastanza anticorpi per poter trovare dentro i suoi valori, le giuste risposte a questa sfida. Risposte che devono certamente, come suddetto, prevedere anche delle misure particolari, ma che non devono intaccare le regole democratiche su cui si fondano le nostre società e i nostri sistemi politici. Per quanto concerne Israele, posso dirle che non siamo in uno stato di emergenza e Israele non rischia di sparire. Israele è una realtà, uno Stato forte e stabile, in cui le forze di sicurezza per un verso sono attivamente impegnate nella lotta contro il terrorismo, ma questo impegno non intacca il continuo sviluppo, la prosperità e la dinamicità del Paese.

L’ex ministro degli Affari Esteri Italiani e già Commissario Europeo Emma Bonino ha recentemente sostenuto: “È assolutamente stucchevole immaginare un’intelligence europea, senza una politica estera e di difesa e sicurezza comuni. Ecco perché qualunque paragone fatto con l’Fbi o la Cia è completamente strampalato. Gli Usa hanno un’unica politica estera e una di difesa e, ciò nonostante, tra l’altro, anche all’interno della Cia ci sono varie correnti. L’Europa non ha nulla di tutto questo. Siamo ultra fragili ma, evidentemente, questo è ciò che vogliono gli Stati membri dell’Unione europea”. Che consigli si sentirebbe di dare all’Europa su intelligence e politica estera?

Come diplomatico israeliano, non posso entrare nel merito del giudizio sulle politiche estere dei Paesi europei o della stessa Unione. Posso dire che, come Lei ben sa, la storia dell’Unione europea e quella degli Stati Uniti sono ben diverse. Sicuramente le parole di Emma Bonino vogliono rappresentare uno stimolo per l’Unione, al fine di omologare il più possibile le varie politiche estere. Una premessa fondamentale, come anche l’Italia ha sottolineato, per la creazione di una “Fbi” europea. In termini più generali, posso dirle che il terrorismo non è un fenomeno meramente locale. Non è, quindi, un problema solo francese, italiano o israeliano. È un fenomeno e una minaccia transazionale. In quanto tale, questa minaccia deve essere affrontata e sconfitta per mezzo di una collaborazione sia regionale che globale.

Il Partito Radicale sta tentando di avviare un progetto transnazionale in seno alle Nazioni Unite per “la transizione dalla Ragion di Stato allo Stato di Diritto” a partire dalla codificazione del diritto umano alla conoscenza. Come rafforzare i principi democratici e rispettosi dello Stato di Diritto in Medioriente?

La campagna del Partito Radicale per lo Stato di Diritto e il diritto alla conoscenza - che vede la preziosa figura dell’Ambasciatore Giulio Terzi in prima fila - rappresentano un progetto davvero importante. Nel caso, ad esempio, del conflitto israelo-palestinese, ritengo che non possa solamente bastare il principio dei “Due Stati per due Popoli”. È importante che questo slogan si possa coniugare anche in senso più largo, ovvero “Due Democrazie per due Popoli”. Creare al fianco di Israele, unica democrazia dell’area, l’ennesimo fragile Stato autoritario, sicuramente non aiuterà la stabilità e la prosperità della Regione mediorientale.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:04