In Sud Sudan si vive  un incubo senza fine

Un recente Report redatto dall’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (Ohchr) ha cercato in questi ultimi giorni di porre nuova attenzione sulla situazione sempre più drammatica interna al Sud Sudan, il più ‘giovane’ Stato del mondo (nato solo nel luglio 2011 a seguito di un referendum popolare che ne ha sancito l’indipendenza dal Sudan), straziato da una sanguinosa guerra civile che si protrae ormai dal dicembre 2013, quando l’ex vicepresidente Riek Machar (di etnia Nuer), leader delle fazioni ribelli che si oppongono al governo centrale di Juba, è stato accusato dal Presidente in carica Salva Kiir (di etnia Dinka) di complottare per realizzare un colpo di stato ai suoi danni. Un conflitto che appare senza fine, praticamente mai giunto all’attenzione della cosiddetta Comunità internazionale, che negli anni ha tuttavia travalicato i confini dello scontro inter- etnico (come sembrerebbero dimostrare le armi moderne – di produzione straniera – in dotazione alle fazioni belligeranti) e che sta conducendo ad una crisi umanitaria senza precedenti.

Il Report dell’Ohchr conferma come “gli omicidi, le violenze sessuali, le evacuazioni, le distruzioni e i saccheggi, che erano le caratteristiche del conflitto fino al 2014, sono continuati senza sosta per tutto il 2015”, evidenziando inoltre un ruolo di primo piano dell’esercito governativo (e delle milizie sue alleate) nelle “estese e sistematiche” violenze commesse sulla popolazione civile, benché numerose atrocità siano state parimenti commesse dalle fazioni ribelli. In particolare, viene rilevato come il governo, nel tentativo di riconquistare parti del territorio sotto il controllo dei ribelli e prevenire qualsiasi potenziale aiuto a favore di questi ultimi, abbia fatto un uso sistematico della “politica della terra bruciata”, “deliberatamente diretta verso i civili”, attraverso la quale migliaia di “uomini, donne e bambini sono stati uccisi, infilzati, tagliati a pezzi, bruciati vivi, castrati, impiccati, annegati, investiti, soffocati, lasciati morire di fame o fatti saltare in aria, con i loro cadaveri abbandonati dove si trovavano o ammassati in grandi fosse comuni” e, come riporta il Mail & Guardian, in almeno un caso addirittura “mangiati in un rito di cannibalismo”.

Il Report dell’Onu ha inoltre evidenziato una situazione particolarmente angosciante per le donne: nel solo Stato di Unity, sono stati documentati oltre 1.300 casi di stupro di donne e bambini – anche disabili – tra l’aprile e il settembre 2015, e fonti credibili indicano come le forze governative abbiano autorizzato i soldati a stuprare le donne come forma di pagamento, secondo la logica perversa del “fa’ quel che puoi e prendi quel che puoi”. Numerose risultano inoltre le testimonianze relative all’abominevole pratica dello stupro di gruppo da parte dei soldati, spesso di giovani donne o addirittura di bambine, in molti casi davanti ai propri genitori, oltre alla pratica altrettanto diffusa del rapimento di donne per essere poi usate come schiave sessuali o come “mogli” dei soldati.

Come affermato dallo stesso Report, le rilevazioni dell’Ohchr rappresentano tuttavia solo una semplice “istantanea” di ciò che sta succedendo nel Paese africano, la cui situazione complessiva resta infatti a dir poco drammatica, venendo descritta già nel 2014 dalle Nazioni Unite come “la peggior crisi alimentare al mondo”: si stima che circa 2,3 milioni di persone siano state costrette a fuggire dalle proprie case, con 6,1 milioni di persone dipendenti dagli aiuti umanitari d’emergenza, oltre a circa 16mila bambini reclutati come soldati da ambo le parti. Il numero reale delle vittime del conflitto resta tuttavia impossibile da definire, in parte a causa della pericolosità del territorio, in molte parti interessato da forme di illegalità diffusa o di assenza totale della legge, che ha finora limitato l’accesso delle organizzazioni umanitarie a soli quattro dei dieci Stati costituenti il Sud Sudan, principalmente lo Stato settentrionale e ricco di petrolio di Unity, quello di Upper Nile e quelli del Western e Central Equatoria. L’azione degli operatori umanitari resta inoltre condizionata da una mancanza di cooperazione da parte del governo di Juba, che anzi avrebbe in più di un’occasione agito per ostacolare la possibilità di circolazione del personale Onu all’interno del territorio sud-sudanese, oltre ad aver inaugurato un giro di vite senza precedenti anche sugli operatori dell’informazione, attraverso la chiusura di giornali e l’arresto e la detenzione di vari giornalisti (più almeno sette casi di omicidi nel solo 2015 che restano quantomeno sospetti). Secondo le Nazioni Unite, le vittime delle violenze dirette della sanguinosa guerra civile in atto sarebbero almeno 50mila, mentre i numeri relativi alle persone morte a seguito delle conseguenze della guerra potrebbero essere invece di gran lunga maggiori.

L’Onu ha infatti più volte denunciato la condizione “catastrofica” in cui si troverebbero decine di migliaia di sud-sudanesi a causa dell’inedia derivante dai blocchi degli aiuti alimentari, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rilevato come la malaria stia rapidamente diventando la principale causa di morte della popolazione locale, sebbene sia oggi facilmente prevenibile e curabile, con numeri che stanno raddoppiando e finanche quadruplicando in alcune aree rispetti agli anni scorsi, raggiungendo livelli “senza precedenti”. Per diversi operatori umanitari, il numero di vittime nel Paese potrebbe arrivare sino a 300mila, una cifra impressionante e comparabile a quella dell’altrettanto sanguinoso e perdurante conflitto siriano. Cifre da vero e proprio esodo sono anche quelle relative ai rifugiati sud-sudanesi. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), sarebbero infatti circa 824.517 i rifugiati sud-sudanesi che sono riusciti a scappare negli Stati confinanti, mentre circa 200mila civili hanno finora trovato rifugio e protezione nei campi allestiti dall’Onu all’interno del Paese africano.

Secondo il recente Report delle Nazioni Unite, le violazioni e gli abusi commessi in Sud Sudan non sarebbero affatto “isolati o casuali atti di violenza” commessi da singoli individui – come continua ad affermare il governo di Juba – ma invece atti intenzionali, deliberatamente condotti su base etnica e che richiedono “un certo livello di preparazione” nella loro esecuzione, rappresentando “gravi violazioni ed abusi dei diritti umani internazionali e serie violazioni del diritto umanitario internazionale”, con “ragionevoli motivi” per credere che tali atrocità potrebbero costituire “crimini di guerra e/o crimini contro l’umanità”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:04