La reislamizzazione della Turchia

L’irruzione della polizia di Ankara di sabato scorso nella sede del più grande giornale di opposizione Zaman, per chiuderlo con l’accusa di propaganda terroristica, a seguito della decisione di un Tribunale, è l’ultimo degli atti di una democrazia in crisi.

La Turchia torna sotto attenzione, dopo una serie di eventi che l’hanno vista protagonista negli ultimi tempi. L’abbattimento del mig russo, la strage di 95 pacifisti morti ad Ankara il 10 ottobre, la conquista della maggioranza assoluta da parte del partito islamico moderato di Erdogan, l’ondata migratoria degli sfollati dalla Siria, l’hanno già messa sotto i riflettori delle Cancellerie di tutto il mondo. Tutto ciò, assieme all’ultimo attacco alla libertà di stampa, non può che ulteriormente compromettere l’ipotesi di un suo ingresso nell’Unione europea.

L’insieme delle vicende turche assume un significato del tutto speciale soprattutto nella cornice geopolitica, dove la Turchia, membro della Nato, funge da ponte tra l’Occidente, il Medio e l’Estremo Oriente. Nella strategia geopolitica, i suoi migliori alleati restano gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che continuano a caldeggiarne l’ingresso in Europa. Parigi e Berlino non ne sono entusiasti. L’Italia di Prodi e Berlusconi è stata tra coloro che ne hanno appoggiato l’adesione, prevalentemente per ragioni di carattere economico. È evidente che le motivazioni della geopolitica giocano un grande peso nelle relazioni internazionali, tuttavia, l’Occidente non può transigere su tanti fenomeni che riguardano la menomazione della libertà di espressione, la violenza brutale degli organi di polizia, la violazione dei diritti umani, delle minoranze e della democrazia.

La popolazione turca è per il 98%, di religione musulmana (68% sunniti, 30% sciiti). Ciò nonostante, l’approvazione della Costituzione di Mustafà Kemal Atatürk, con le modifiche del 1928, aveva permesso di inserire la nuova Repubblica nel novero degli Stati laici, a seguito della soppressione del Califfato. Una originalità assoluta questa, per una nazione formata da una popolazione integralmente musulmana. Oggi, questa originalità viene messa in discussione, anche per effetto di alcune recentissime decisioni della Corte Costituzionale, che evidenziano una nuova forma di reislamizzazione dei costumi e del diritto.

Il riferimento, ignorato incolpevolmente dalla stampa italiana, va alla recente sentenza del 27 maggio del 2015 (T.C. Anayasa Mahkemesi) che, nel dichiarare incostituzionale un articolo del Codice penale, ha soppresso il divieto della celebrazione del matrimonio religioso prima della celebrazione del matrimonio civile. Questo divieto, imposto da Atatürk, intendeva collocare il matrimonio nel novero delle istituzioni secolari, secondo principi, regole e discipline comuni a tutta la comunità statale, sottraendolo all’influenza della religione. La sua soppressione non farà che agevolare la reintroduzione, soprattutto nelle aree meno evolute, del solo rito musulmano, con gli effetti tipici suoi propri.

A prescindere dalla poligamia (impossibile ai fini civili), il rischio è quello della riesumazione dei principi della diseguaglianza tra coniugi, la reintroduzione della disparità tra figli legittimi e naturali, l’accantonamento del limite della maggiore età per la celebrazione matrimoniale. L’innovazione fa correre soprattutto il rischio di un vera e propria menomazione della laicità dello Stato, secondo una tendenza che si è riscontrata anche nel 2014, quando un’altra decisione della Corte aveva permesso l’uso del “velo” islamico in alcuni locali pubblici (tribunali). La reislamizzazione della Turchia sembra dunque in cammino, dietro l’impulso del partito di Erdogan. Ma questo, alla luce della reiterata richiesta di entrare nell’Unione europea, non aiuta, perché se c’è un valore su cui l’Europa non è disposta a transigere è proprio quello della democrazia e della laicità, unici veri fattori di unificazione del popolo europeo.

L’Europa è ormai una pura e semplice entità di carattere economico, senza una sua anima. Sarebbe troppo grave che, per geopolitica, fossimo disposti a rinunciare anche a quel poco d’identità liberale che resta.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:04