Stanotte (ora italiana), si conosceranno i risultati del cosiddetto SuperTuesday delle primarie statunitensi. In campo democratico il risultato sembra scontato. In Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee, Texas e Virginia la Clinton viaggia con vantaggi in doppia cifra nei sondaggi, spinta dalla mobilitazione della comunità afro-americana che, soprattutto negli stati del Sud, rappresenta la maggioranza assoluta dell’elettorato democratico alle primarie. Bernie Sanders sembra poter reggere botta solo in Massachusetts, Vermont e Minnesota (stati con una percentuale irrisoria di elettori di colore) e forse nei caucus del Colorado. Ma da domani Hillary potrebbe già contare su un vantaggio pressoché incolmabile nel conto dei delegati.
In campo repubblicano, invece, la situazione è più complessa. Ma la dinamica della corsa sembra anche in questo caso dirigersi verso una vittoria schiacciante: quella di Donald Trump. Sottovalutato per tutta l’estate dall’establishment del partito, il tycoon newyorkese che si diletta a twittare gli aforismi di Benito Mussolini ha ormai soltanto due ostacoli che si frappongono tra lui e la nomination: Ted Cruz e Marco Rubio, rispettivamente senatori junior di Texas e Florida. L’ex neurochirurgo Ben Carson e il governatore dell’Ohio, John Kasich, non sembrano infatti in grado di avvicinarsi al terzetto che conduce in tutti i sondaggi. E già da domani i pretendenti del Grand Old Party potrebbero diventare quattro (Kasich non sembra aver intenzione di mollare, almeno fino alle primarie in Ohio del 15 marzo).
Cruz, fino a qualche settimana fa, sembrava l’avversario potenzialmente più pericoloso per Trump. E puntava molto sugli stati del Sud al voto nel SuperTuesday, forte di un’organizzazione molto rigorosa sul campo e sul sostegno di larghe fette dell’elettorato evangelico, che al di sotto della linea Mason-Dixon rappresentano una buona percentuale del tradizionale bacino elettorale del Gop. Ma dopo la larga vittoria di Trump in South Carolina le convinzioni del senatore texano sembrano essersi sgretolate contro la dura legge dei numeri. E Trump - in stati come Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee e Virginia (che sembravano, sotto il profilo demografico, ritagliati su misura per Cruz) - conduce abbastanza nettamente nei sondaggi, preparandosi a fare il pieno di delegati. Una sconfitta di Cruz anche nello stato di casa, il Texas, potrebbe mettere la parola fine a qualsiasi sua speranza di rimonta. Rubio, dal canto suo, possiede quello che manca a Cruz – cioè la fiducia dell’establishment del partito – ma sembra non poter contare su una base elettorale sufficiente per contrapporsi a Trump. Negli stati del Sud è quasi sempre terzo (dietro a Trump e Cruz), nei popolosi (e più moderati) stati del Nord Est non riesce quasi mai ad impensierire il frontrunner. Anche se gli analisti lo considerano più competitivo in assoluto di Cruz, insomma, sembra improbabile che Rubio riesca a fare molta strada senza vincere in nessuno stato delle primarie.
Per evitare la disfatta, dunque, il “fronte anti-Trump” del Partito repubblicano sembrerebbe avere a disposizione una sola strada: quella di un alleanza organica tra Rubio e Cruz. Alleanza molto complicata, però, non tanto per una presunta distanza ideologica tra i due candidati (più presunta che reale), quanto per il grado di aggressività ed acrimonia che i due hanno dimostrato l’uno nei confronti dell’altro durante questi primi mesi di campagna elettorale, nell’ansia di “eliminare” l’avversario per forzare un testa-a-testa contro Trump. Il rapporto tra i due giovani senatori eletti durante “l’onda rossa” delle elezioni di midterm del 2010, insomma, potrebbe essersi così deteriorato da rendere impossibile un “ticket” in grado di contrapporsi a Trump in modo efficace.
Qualche voce isolata, come quella di Erika Grieder sul Texas Monthly (che riprende in parte un commento già pubblicato sulle colonne di Red State), preme invece per un’alleanza non organica tra Rubio e Cruz: non un “ticket”, insomma, ma un “patto di non belligeranza” per concentrare tutto il fuoco residuo a disposizione dei conservatori contro The Donald, continuando a “marciare divisi per colpire uniti” – come hanno giù in parte fatto, in modo piuttosto palese, durante l’ultimo dibattito televisivo a Houston – allo scopo di sottrargli il maggior numero di delegati possibili in vista di una brokered convention. Né Rubio né Cruz, questo è il senso del ragionamento, hanno da soli la forza per superare i numeri di Trump. E il ritiro di uno dei due non equivale al travaso matematico dei sostenitori di uno nel campo dell’altro. Meglio, allora, continuare ad accerchiare il “nemico” da destra e da sinistra per impedirgli, almeno, di raggiungere la maggioranza assoluta dei delegati in vista della convention. Rimandando lo “scontro finale” alla metà di luglio alla Quicken Loans Arena di Cleveland, in Ohio, sede della convention del partito che dovrà nominare il candidato alla presidenza.
Si tratta di un’ipotesi affascinante, ma molto rischiosa. E che resta soprattutto appesa al filo delle performance di Rubio e Cruz (e dunque di Trump) nei prossimi appuntamenti elettorali delle primarie. A partire da quello di stanotte.
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:43