Crisi dei missili cinesi

La crisi dei missili cinesi si è aperta, come di consueto, con foto satellitari e con un rapporto di intelligence americano. In questo caso, possiamo vedere distintamente missili anti-aerei schierati dai cinesi su Woody Island, nel Nord dell’arcipelago delle isole Paracel. La crisi non è grave quanto quella storica (del 1962) dei missili di Cuba, ma indica quanta tensione vi sia fra la Cina e i suoi vicini, oltre che fra la Cina e gli Usa, per il controllo di un angolo del Pacifico. Si tratta, infatti, di una delle zone più “calde” del mondo, anche se fisicamente molto lontana da noi.

Le isole Paracel sono reclamate, in tutto o in parte, dalla Cina, da Taiwan (che la Cina non riconosce neppure come uno Stato indipendente e sovrano) e dal Vietnam. Con altri vicini, quali le Filippine, la Malesia e l’Indonesia, c’è un’altra lite in corso sul possesso delle vicine isole Spratley. Il valore degli arcipelaghi in sé è poca cosa: stiamo parlando di pezzi di terra grandi poco più che scogli. Quel che interessa sono soprattutto le risorse marittime, di cui quell’area è molto ricca. Potenzialmente lo sarà anche di più, quando si inizierà a sfruttare tutto il petrolio nascosto nei suoi fondali, stimato in 4,5 chilometri cubi, pari a 28 miliardi di barili. E’ un tesoro che fa gola a una Cina sempre assetata di risorse energetiche e con una crescita economica che inizia a perdere colpi. Ancor più importante è la collocazione strategica dei due arcipelaghi: se occupati e trasformati in basi aero-navali, possono contendere la supremazia statunitense nell’area (le basi Usa, ritirate dalle Filippine nei primi anni 90, sono tornate) e soprattutto possono permettere il controllo di una delle rotte navali più importanti del mondo: quella dello stretto della Malacca. Chi li controlla, potrebbe aprire e chiudere il traffico a suo piacimento. La Cina non ha esitato a muoversi unilateralmente, compiendo manovre navali nell’area e iniziando un’opera faraonica: la costruzione di un porto artificiale nella più grande delle isole Paracel, chiamata internazionalmente Woody Island (Yongxing, in cinese) all’estremo Nord dell’arcipelago. La stessa isola è rivendicata anche dal Vietnam. Ma mentre il Vietnam non è riuscito a metterci piede, la Cina vi ha installato una base militare, sta costruendovi, appunto, il porto artificiale e l’ha colonizzata grazie all’arrivo di lavoratori, militari e tutti i loro parenti. A Woody Island, ora, vivono un migliaio di persone, dotati di tutti i servizi, scuole, libreria e ospedale compresi.

Finora la crisi con il Vietnam era stata gestita diplomaticamente, perché l’isola non era una base strategica della flotta cinese, ma ospitava solo una piccola guarnigione. Ma il regime di Hanoi, che già ha combattuto una dura guerra con la Cina nel 1979, denuncia la progressiva costruzione di opere sempre più vaste, preludio dell’installazione di una base navale capace di ospitare anche navi di grosso tonnellaggio. I cinesi, secondo i vietnamiti, voglio il controllo di tutto il Mar Cinese Meridionale e con una base a Woody Island, capace di intercettare ogni nave e aereo che dovesse passare sulle Paracel, stabilirebbero un controllo de facto sull’arcipelago. Le foto satellitari statunitensi delle nuove rampe di lancio missilistiche cinesi, purtroppo per i vietnamiti, confermerebbero questi timori.

Il regime di Pechino, dal canto suo, non conferma, ma non nega neppure. Alla pubblicazione del rapporto di intelligence statunitense, i cinesi hanno reagito, prima di tutto, negando. Il governo ha definito “un’invenzione dei media occidentali” la presenza delle batterie anti-aeree. Poi, però, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, ha descritto i lavori in corso a Woody Island, come una “limitata e necessaria autodifesa, in conformità al diritto di autodifesa, come da legge internazionale”. Quindi, dopo la negazione, è giunta l’ammissione.

E adesso? E’ chiaro che i cinesi puntino al fatto compiuto. Il problema della reazione del Vietnam, militarmente molto più debole, è secondario. La crisi peggiore potrebbe essere paradossalmente con gli Stati Uniti, che hanno sollevato il caso. Paradossalmente, perché dopo tutta la guerra che vi hanno combattuto, gli Usa sono ora dalla parte del regime di Hanoi. Non perché vogliano favorirne gli interessi nazionali, ma perché intendono far rispettare il principio di libertà di navigazione in un’area strategica. Se i cinesi avessero la possibilità di controllare in modo monopolistico gli accessi allo stretto della Malacca, il danno verrebbe subito anche dagli americani. Sarebbe grave quasi quanto perdere la libertà di navigazione nel Golfo Persico, uno scenario da incubo strategico. Il confronto si prospetta duro, quindi. E va ad aggiungersi alle altre aree di tensione nel Pacifico: la Corea, lo stretto di Taiwan (Pechino contro Taipei), le isole Senkaku (Cina contro Giappone), le Spratley (Cina contro Vietnam, Filippine, Indonesia e Malesia). In tutti questi scenari di crisi, gli Usa sono direttamente coinvolti nel ruolo di protettori dei nemici della Cina. Non è un caso che il prossimo budget militare americano per il 2017 sia tutto orientato a mezzi e armi capaci di sostenere una guerra nel Pacifico.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:56