Dalla parte del popolo o della tirannia?

La presidenza di Hassan Rouhani è stato il prodotto della paura di Khamenei per l’esplosione della rabbia diffusa tra la popolazione iraniana. Nel 2009 il delirio di onnipotenza di Khamenei aveva estratto, in malo modo, dal cilindro delle urne Ahmadinejad; ma la massiccia rivolta aveva fatto capire a Khamenei che la pazienza del popolo iraniano era agli sgoccioli. Peccato che i referenti di quella rivolta fossero Mussavi e Karuobi, organici ad un regime despota che rende irrealizzabile ogni cambiamento reale del Paese verso la democrazia. Mussavi e Karuobi sono durati pochissimi giorni, ma abbastanza per disorientare, confondere e scoraggiare le masse; il loro complice silenzio ha ricoperto di cenere quella rivolta. Il fatto che i due si trovino tuttora agli arresti domiciliari palesa lo stato di salute di un regime fragile. Estromessi Mussavi e Karuobi, ci sono voluti dei mesi affinché la tirannia teocratica al potere in Iran potesse, momentaneamente, domare quella rabbia popolare. Il volto sereno e insanguinato di Nedà che moriva è entrato in tutte le case attraverso il drammatico filmato ripreso con un telefono cellulare, rivelando al mondo la risposta del regime alle istanze democratiche del popolo iraniano. Già allora le lettere calorose di Obama a Khamenei hanno certificato da che parte stanno i potentati della terra. La rabbia vera e autentica degli iraniani, sebbene repressa violentemente, rimane.

Qual è la natura politica e ideologica del regime teocratico al potere in Iran? E’ davvero sufficiente il semplice rito delle elezioni, del tutto particolare, a denominare questo regime democratico? Nella Repubblica islamica dell’Iran il meccanismo delle elezioni non è incompatibile con l’assenza di libertà; il complesso sistema del velayat-e faghih - articolo 57 della Costituzione - sovrintende in modo discrezionale i tre poteri dello Stato e tutte le istituzioni, che solo in apparenza, possono vagamente assomigliare ad organismi democratici - articolo 177. La Repubblica islamica è antitetica alla democrazia, mancando del tutto dei principi fondamentali quali la libertà di pensiero, di critica, di partecipazione e organizzazione sociale e politica, di dissidenza. Tuttavia nell’Iran della Repubblica islamica c’è il rito delle elezioni: una pratica tra candidati pienamente fedeli ai fondamenti liberticida del sistema, a cui una parte della popolazione partecipa stancamente e molte volte in modo forzato. Un rito che semmai è un campo di guerra tra le fazioni dello stesso regime che punta in ogni caso a salvaguardare se stesso, a scapito delle istanze democratiche del popolo. Nelle elezioni del giugno 2013, tutto il cruccio del regime, di Khamenei, era bloccare la rabbia popolare ed evitare una nuova rivolta che gli poteva essere fatale. Ecco come esce proprio al primo turno dal cilindro elettorale l’uomo dell’apparato di sicurezza orgonicissimo al regime, ma non la prima scelta di Khamenei. Da questa guerra, tra Khamenei e Rafsanjani, che dura decenni, il popolo non ha alcun beneficio. Il problema degli iraniani e dell’Iran è la Repubblica islamica e la sua Costituzione, che nessuno degli attori in causa ha intenzione di modificare. Ecco il conflitto irrisolvibile tra la popolazione iraniana e il regime teocratico con tutte le sue fazioni. Khatami, Ahmadinejad e Rouhani sono diverse maschere dello stesso regime, senza dimenticare che comunque in Iran il potere vero è nelle mani del leader spirituale, non in quelle del presidente della repubblica.

Hassan Rouhani è stato per 16 anni segretario del Consiglio supremo di sicurezza nazionale - organo della repressione interna e del terrorismo all’estero - ed è stato in questo organismo il rappresentante di Khamenei fino al 2013. Rouhani nel suo libro “Sicurezza nazionale e diplomazia nucleare” si difende dall’accusa di essere stato troppo arrendevole verso l’Occidente e scrive che tra il 2003 e il 2004, mentre si accordava con gli europei, faceva allestire le centrifughe. Fu Rouhani a invocare nel 1999 e nel 2004 la pena di morte per gli studenti che manifestavano e a definire sprezzantemente la democrazia una copertura americana. Rouhani aveva il compito di allentare le sanzioni economiche, che stavano distruggendo il regime, ma delle sue promesse elettorali non si intravede nulla, e la situazione dei diritti umani in Iran è peggiorata drammaticamente. Il 90% dei lavoratori iraniani, Il 63% degli abitanti delle città e il 77% delle zone rurali vivono sotta la soglia della povertà. In Iran ci sono 4 milioni di drogati, le città iraniane sono tra le più inquinate: tra le 10 città del mondo più inquinate, 4 sono in Iran. L’Iran è al primo posto per la fuga dei cervelli: ogni anno fuggono dal Paese 150-200 mila laureati.

Si possono elencare ancora i catastrofici numeri che danno l’idea della gestione del potere di un pugno di uomini che portano il paese verso il tracollo e reprimono la rabbia popolare con il pugno di ferro. La sistematica violazione dei diritti elementari degli iraniani è una prassi consolidata, e non si vede all’orizzonte alcun miglioramento. Ban Ki-moon, Segretario generale delle Nazioni Unite, nella sua relazione annuale, datata 25 settembre, esprime forti preoccupazioni sulla situazione dei diritti umani in Iran e si dice preoccupato per le impiccagioni dei minori e per quelle in pubblico e dichiara: “C’è stata un costante trend in ascesa nel numero delle esecuzioni dal 2008 al 2015”.

Durante la presidenza di Rouhani, iniziata in agosto 2013, sono state impiccate ad oggi oltre 2.000 persone. Il regime teocratico al potere in Iran fa un uso politico della repressione. Le autorità italiane e il Papa riceveranno il prossimo 14 novembre il presidente dei mullà, di cui abbiamo accennato la pagella. Stringere le mani a un dittatore, si chiami Rouhani o Pinochet, non fa onore a nessuno, tanto meno all’Italia con la sua esemplare tradizione di rispetto dei Diritti Umani, né al Pontefice che dovrebbe per missione stare la parte della vittima, non del carnefice.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:02