Cina, due figli sono meglio di uno

Un video che sta facendo il giro della Rete presenta il nuovo piano quinquennale del Partito Comunista cinese con un simpatico clip indie-pop, destinato soprattutto ad un pubblico occidentale.

A prima vista sembrerebbe una nuova iniziativa turistica e farebbe pensare che i cinesi si stanno realmente mettendo al passo coi tempi per attrarre visitatori dal mondo anglosassone ed europeo. Anche se simpatica, è però la presentazione di una delle attività più grigie, autoritarie (e fallimentari) del sistema comunista: la pianificazione dell’economia da parte dello Stato.

Dunque: la sostituzione delle preferenze personali, individuali, con una burocrazia che decide cosa produrre, chi deve consumare cosa e a che prezzo. Dello stesso tenore, contemporaneamente al varo del nuovo piano, è l’annuncio della “fine della politica del figlio unico”. A prima vista parrebbe la decisione, da parte dello Stato, di permettere finalmente ai suoi cittadini di decidere sulla propria vita, sulla propria attività sessuale e su quanti figli mettere al mondo. Invece, a ben vedere, si tratta di un’altra pianificazione: tutte le coppie di cinesi potranno avere, al massimo, due figli, invece che uno. Non più di due. Il terzo lo dovranno abortire. O ci penserà lo Stato a farlo fuori e a punire le famiglie che trasgrediscono con multe salate, in molti casi accompagnati da licenziamenti, espropri e carcere. L’annuncio sulla “fine del figlio unico”, dunque, proprio come il simpatico video di presentazione del nuovo piano quinquennale, è un fiocco, un abbellimento a un sistema che è e resta totalitario.

Già nel 2013 era stata apportata una prima modifica alla “Legge sul figlio unico”, voluta da Deng Xiaoping nel 1979 ed entrata in vigore nel 1980. Dopo 33 anni e 400 milioni di aborti, molto spesso forzati, il Partito si era reso conto che la situazione demografica stesse andando fuori controllo: un tasso di natalità talmente basso da impedire un rinnovo generazionale, un calo nella crescita del settore manifatturiero, una percentuale di donne bassa in modo preoccupante rispetto alla popolazione maschile, gravissime difficoltà in vista per il sistema previdenziale.

Entro il 2023, prevedevano gli istituti demografici di Pechino, sarebbe iniziato il declino. Nel 2013, dunque, era stata annunciata la riforma, entrata ora in vigore ed erano già state introdotte parziali liberalizzazioni. Di pianificazione si tratta comunque. E le prime, timide, riforme del 2013-2014 non hanno dato i risultati sperati dagli autori del precedente piano quinquennale: avevano previsto la nascita di almeno 20 milioni di cinesi in più, mentre ne sono venuti al mondo poco meno di 17 milioni. Visti questi precedenti, con la nuova legge sulle nascite, non è affatto detto che vengano raggiunti i risultati del prossimo piano quinquennale: l’abitudine è più cocciuta del previsto e i cinesi, assuefatti a un trentennio abbondante di imposizione di un unico erede (oltre che costretti a lavorare per 45 anni filati per potersi permettere un secondogenito) adesso si ostinano a non voler fare figli. Non tanti quanti previsti dai pianificatori, almeno.

E di pianificazione stiamo parlando, comunque. Lo Stato non ha affatto rinunciato a regolare la vita dei cinesi dal ventre materno alla tomba. Non è affatto uscito dalla camera da letto delle coppie dei suoi cittadini. Non ha affatto ridato senso e valore alla vita della persona: ha deciso semplicemente che due figli possono andar meglio di uno, perché altrimenti si rischia un collasso anche economico, oltre che demografico. Ma si riserva sempre il “diritto” di uccidere quelli in più. In una realtà in cui l’individuo è niente e lo Stato è padrone di tutti, vita, morte, speranza, amore devono passare attraverso i programmi di calcolo dei pianificatori. E molto spesso il risultato è sbagliato.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:10