Dove va l’Afghanistan

Abbiamo appreso nei giorni scorsi dalle parole del Presidente del Consiglio Renzi che l’Italia starebbe valutando di mantenere per un altro anno il contingente militare in Afghanistan. Ovviamente ogni intenzione del Governo dovrà essere comunicata formalmente al Parlamento per l’approvazione. Sono oggi circa 780 i militari italiani impiegati in Afghanistan, nelle zone di Kabul ed Herat, nella missione a comando della NATO, che dal 1 gennaio 2015 ha sostituito la missione ISAF, col compito di fornire addestramento e assistenza alla forze afghane, senza interventi di combattimento. Con i soldati italiani sono schierati, oltre alle truppe americane, anche contingenti tedeschi e turchi.

La missione italiana in Afghanistan si sarebbe dovuta concludere dapprima lo scorso settembre e poi è stata prorogata dal Governo fino alla fine di quest’anno. Lo scenario che potrebbe accompagnare la permanenza dei nostri soldati però è denso di nuvole nere. La situazione sul terreno e la ripresa, con più forza nelle ultime settimane, degli attacchi terroristici dei Talibani ha sconvolto i piani di rientro delle truppe straniere; il governo afgano sta premendo sui paesi che partecipano alla missione militare, in primis sulla Casa Bianca, affinché possa essere riconsiderato il calendario del ritiro delle loro truppe almeno fino a tutto il prossimo anno.

Quello che è successo nei giorni scorsi a Kunduz, importante capoluogo della provincia settentrionale dell’Afghanistan, al confine con il Tagikistan, è stato uno shock psicologico per il popolo afghano e una pesante sconfitta strategica e tattica sia per l'Afghanistan che per gli Stati Uniti e i paesi alleati. Kunduz, dove vivono oltre cento mila persone, è il centro delle province nord- orientali e fu una delle roccaforti dei Talebani durante il loro regime. La città ha inoltre un'importanza strategica perché collega le province di Takhar e Badakhshan, dove l'attuale governo ha investito moltissimo, in risorse e capitale umano, per conquistare la fiducia di quelle genti che hanno sempre visto con ostilità i governanti di Kabul. Se cadessero quelle province in mano ai Talibani, il nord dell’Afghanistan si disgregherebbe come neve al sole in pochi giorni e la minaccia su Kabul e sul resto del paese diventerebbe tragica realtà. In altre parole, quattordici anni di guerra, con migliaia di morti, tra soldati anche stranieri e civili inerti, per riportare il paese alla normalità dopo il folle regime dei Talibani sarebbero stati completamente inutili.

Meno di un mese fa i Talebani hanno dunque conquistato Kunduz, in un’azione rapida che ha messo in luce tutta la debolezza e l’inadeguatezza delle forze regolari afgane. Solo grazie all’intervento massiccio dei bombardieri americani che hanno sganciato centinaia di ordigni, la città è stata finalmente riconquistata e i Talebani sono stati respinti. Nei bombardamenti americani è rimasto colpito per errore anche l’ospedale di Medici senza Frontiere, causando almeno venti morti tra medici e pazienti e molte decine di feriti gravi. La battaglia di Kunduz ha riportato drammaticamente all’attenzione mondiale la difficilissima transizione in corso in Afghanistan.

Il dato che emerge più eclatante è l’incapacità delle autorità afgane di governare. E’ passato poco più di un anno dalle elezioni presidenziali che hanno decretato la vittoria di Ashraf Ghani contro l’altro candidato, l’ex ministro degli esteri Abdullah Abdullah. Le elezioni, che si svolsero sotto la minaccia incombente di attentati da parte dei gruppi talebani, furono contestate fino all’ultimo voto, con accuse di brogli da entrambi i contendenti, malgrado la presenza di osservatori stranieri indipendenti.

Su pressione del Segretario di Stato Kerry, Ghani e Abdullah hanno poi trovato una formula di compromesso; il primo, vincitore delle elezioni, è il legittimo capo dello Stato, il secondo ricopre le funzioni di capo dell’esecutivo, una sorta di amministratore delegato del governo. Ma il loro lavoro è sembrato non produrre ancora i risultati lungamente attesi. L’esercito e la polizia afgana avrebbero dovuto essere capaci e autosufficienti di imporsi in tutte le regioni del paese; l’amministrazione centrale avrebbe dovuto guadagnare il consenso della popolazione - specie nelle regioni più lontane da Kabul dove è ancora forte il sentimento clanico più che nazionale - per serietà, impegno, onestà ed indipendenza. Così non è stato e i capi clan hanno continuato a fare il bello e il cattivo tempo nelle regioni sotto il loro controllo.

E purtroppo sono anche aumentati gli atti di violenza, attentati commessi dai talibani o azioni di forza dei signori della guerra locali; e le vittime civili sono state troppo numerose. Le forze straniere presenti nel paese, e tra queste anche i nostri militari, hanno fatto il massimo per addestrare i soldati e la polizia afgana, ma lo sforzo sembra non sia stato sufficiente, come l’avanzata talibana a Kunduz ha dimostrato. Forse ha anche influito negativamente l’avviato disimpegno di strutture e unità della coalizione; specialmente gli americani hanno ritirato dall’Afghanistan uomini e mezzi dell’intelligence, rischierandoli in Turchia e in Iraq nelle operazioni contro l’Isis. Questo avrebbe scoperto il fianco del debole esercito afgano e facilitato la riscossa talibana.

Il presidente Obama, allarmato dai rapporti che i generali e gli uomini dell’intelligence americano rimasti sul terreno gli inviano da Kabul, ha opportunamente deciso quindi di mantenere i livelli della forze armate esistenti, circa 5500 soldati, anche nel prossimo anno e ha chiesto a Italia, Germania e Turchia di fare lo stesso. Il contingente Nato manterrà gli scopi della missione e cioè sostenere il Governo afgano nello svolgimento delle attività di sviluppo e consolidamento delle Istituzioni locali, affinché il paese diventi stabile e sicuro e non sia più un rifugio per il terrorismo internazionale. E non sarà una missione facile né senza rischi, anche per i nostri uomini. Ma gli afghani dovranno capire che il sostegno militare internazionale non è, e non deve essere un assegno in bianco. Tutti gli esponenti del governo a Kabul e nelle province, gli alti gradi dell’esercito e della polizia e tutto l’apparato amministrativo pubblico dovrà lavorare con più impegno per migliorare il loro rendimento. L’obiettivo di tutti dovrà essere una vera ricostruzione materiale e morale del paese.

Le premesse ci sono; la paura di perdere Kunduz sembra aver fatto ritrovare agli afgani il loro spirito nazionale. Il Presidente Ghani e il capo del governo Abdullah hanno rivolto un appello congiunto al loro popolo a rimboccarsi le mani e a respingere i Talibani e il terrorismo. Speriamo che questa sia la volta buona per l’Afghanistan perché è probabilmente l’ultima occasione.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:35