In fuga dall’inferno chiamato Eritrea

Ogni mese più di cinquemila eritrei, donne e uomini di tutte le età, fuggono dall’inferno di casa con tutti i mezzi possibili, dando fondo a tutto ciò che possiedono per affidarsi a trafficanti di esseri umani senza scrupoli; il miraggio per tutti è l’Europa, dove potranno ricongiungersi con i familiari che hanno avuto più fortuna prima di loro. L’Europa per gli eritrei è la terra promessa, dove poter iniziare da capo una nuova vita e far nascere un giorno figli liberi con una speranza di un futuro migliore. E il trampolino per l’Europa, dopo oltre 3500 chilometri, di un lungo e drammatico cammino che attraversa Paesi africani duri, il deserto impenetrabile dove molti non ce la fanno e muoiono di stenti, è la Libia, dove decine di migliaia di eritrei aspettano l’ultimo passaggio, quello decisivo, in barche spesso di fortuna verso le coste italiane.

Si calcola che un terzo dei migranti che si imbarca o è in attesa di imbarco per raggiungere le coste italiane sia di nazionalità eritrea. Il popolo africano è il secondo per diffusione nella lista dei migranti, dopo i profughi che fuggono dalla guerra civile in Siria. Ma qual è il motivo che spinge migliaia di eritrei ad un’odissea rischiosissima pur di scappare dal loro Paese?

L’Eritrea è indipendente dall’Etiopia dal 1993, dopo un lungo conflitto armato e un referendum popolare che ha avuto il 99 per cento dei sì; lo stesso anno viene eletto Isaias Afewerki, il capo del movimento indipendentista, presidente della nuova nazione. Afewerki conta molti amici e molto supporto tra i politici italiani a quel tempo in voga. Numerosi tra quelli sono ancora presenti sullo scenario politico nostrano, chissà se hanno mantenuto rapporti con il despota eritreo o ora fanno finta di non ricordarlo.

Dalla sua prima nomina, Afewerki non ha più indetto altre elezioni; quello che sembrava un leader moderno che avrebbe portato libertà e sviluppo in una nuova nazione, si è rivelato uno dei più crudeli dittatori africani; l’Eritrea, sotto il suo regime, è diventata una “prigione a cielo aperto”, come la definisce l’organizzazione “Reporters senza frontiere” che ha documentato gli abusi e le torture.

Il Paese del corno d’Africa è agli ultimi posti negli indici mondiali della libertà di stampa e di opinione e del buon Governo, addirittura dietro alla Corea del Nord e al Turkmenistan, ed è tutto dire. Ad Asmara e nelle altre regioni, poverissime, del Paese vige un sistema poliziesco del terrore: chi è ostile al regime è messo in carcere per anni, dopo essere torturato e deprivato, insieme alla sua famiglia, di tutti i suoi modesti beni.

In un rapporto recentemente pubblicato dalle Nazioni unite sulla situazione dei diritti umani in eritrea, è descritta una società da incubo: le persone sono sistematicamente arrestate a capriccio, torturate, uccise o semplicemente fatte scomparire. Gli eritrei, donne e uomini, sono obbligati ad arruolarsi nell’Esercito nazionale a tempo indeterminato, sottostando a condizioni durissime di vita; molti vengono fatti lavorare in condizioni di schiavitù e a compensi irrisori nei posti di lavoro statali, militari e di altro tipo, a volte per decenni, senza alcuna possibilità di dimissioni o esonero dal servizio e subendo abusi da parte di funzionari statali e di partito che il rapporto delle Nazioni unite non esita a individuare come crimini contro l'umanità.

Il regime di Afewerki ha creato un sistema di sorveglianza di massa che gli ispettori onusiani definiscono orwelliano, dove i vicini di casa e a volte gli stessi componenti del nucleo familiare sono costretti alla delazione. A volte, per paura dei poliziotti, vengono denunciate di opposizione al regime anche persone del tutto innocenti che vengono arrestate e detenute per anni senza processi. Nessun uomo o donna sotto i 60 anni può avere un passaporto, perché fino a quell’età sono tutti chiamati a fare il servizio militare. Le carceri eritree sono stracolme di prigionieri politici, religiosi o semplici obiettori che vengono sottoposti sistematicamente a tortura. Decine di prigionieri vengono tenuti in celle sottoterra per mesi o anni. Altri vengono trattenuti in navi cargo ancorate nei porti del Paese, con temperature non tollerabili. Moltissimi sono i morti in carcere.

L’Eritrea ha inoltre drammatici livelli di malnutrizione e denutrizione definiti allarmanti dalla Fao in occasione della recente giornata mondiale dell’alimentazione. Di fronte a una situazione senza speranza, che si sentono impotenti a cambiare, centinaia di migliaia di eritrei scappano dal loro Paese per vie di fuga mortali attraverso deserti e Paesi vicini in guerra e per mari pericolosi in cerca di sicurezza. Le Nazioni unite hanno rivolto un appello alla comunità internazionale ad accogliere gli eritrei in fuga, offrire loro protezione e rotte migratorie più sicure. Il Mediterraneo, che doveva essere la strada per una vita migliore e sicura, è stata invece la tomba per centinaia di eritrei che hanno visto svanire il loro sogno di libertà, tra inefficienze, fallimenti e lungaggini burocratiche di un sistema internazionale di accoglienza che stenta ancora ad organizzarsi.

Come italiani però dovremmo mostrare maggiore umanità, sensibilità, comprensione, generosità di animo e di mezzi. Se non altro, anche in rispetto della nostra storia. Forse molti di quegli italiani che ora voltano le spalle e che non vorrebbero accogliere in Italia questi disperati, faticano a ricordare che l’Eritrea è stata nostra colonia dal 1872 al 1941; generazioni di famiglie italiane sono vissute accanto agli avi di questi migranti, che hanno servito con lealtà e sono anche morti per il tricolore italiano; persino il nome Eritrea è stato ideato e suggerito dagli italiani.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:12