Continua la guerra in Iraq contro il Califfato, ma incredibilmente al rallentatore. L’amministrazione Obama si ritrova in una fase di passaggio. Non ha più un ministro della Difesa e non ha ancora formalmente selezionato il suo successore. Chuck Hagel, il segretario uscente, non voleva un intervento in Iraq. Il suo successore potrebbe essere stato scelto proprio in forza di una sua maggiore propensione a intervenire. Fra le due posizioni prevale un compromesso, quello della guerra lenta e limitata, senza veri e propri alleati, appoggiando tutti coloro che hanno la buona volontà di combattere le milizie del Califfato sul terreno. E limitando l’intervento diretto a una campagna di raid mirati, contro i vertici del Califfato e le cellule terroristiche individuate che possano costituire un pericolo per gli Stati Uniti.
Questa strategia, nell’ultima settimana ha portato a due grandi successi, i primi da quattro mesi di campagna: la liberazione di monte Sinjar dall’assedio dell’Isis e l’uccisione di un gran numero di leader dell’Isis, fra cui il braccio destro dell’autoproclamato califfo Al Baghdadi.
La liberazione di Sinjar, prima di tutto, pone fine a una delle maggiori emergenze umanitarie del mondo: il tentativo di genocidio degli yezidi, minoranza religiosa irachena perseguitata dagli jihadisti. Da agosto, migliaia di profughi si sono rifugiati nel distretto montuoso di Sinjar. Aerei americani e britannici hanno paracadutato loro aiuti umanitari, per permettere loro di sopravvivere all’assedio degli jihadisti del Califfato. I bombardamenti della Coalizione non sono serviti a spezzare l’accerchiamento, ma solo ad alleggerire la pressione. Alla fine sono stati i curdi, armati dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi della Coalizione anti-Isis, a sferrare l’attacco decisivo con 8000 combattenti peshmerga. Dopo due giorni di combattimento, venerdì sono riusciti ad aprire e consolidare un corridoio, attraverso cui i civili possono fuggire. Appena in tempo per permettere alla minoranza degli yezidi di sfuggire alla morte per stenti e freddo, nell’inverno di una regione montuosa, con vette che superano i 1300 metri.
Il secondo successo della campagna è l’uccisione di molti dei vertici del Califfato. Con raid aerei mirati, il 3 dicembre è stato ucciso Abd al Basit, il “capo di stato maggiore” degli jihadisti, mentre il 9 dicembre è stato eliminato Haji Mutazz, braccio destro di Al Baghdadi. Un terzo raid avrebbe ucciso anche Radwin Talib, il governatore della città di Mosul, la più popolosa fra quelle occupate dalle milizie del Califfo. Anche un gran numero di leader di medio livello e quadri dell’Isis sarebbe stato eliminato con bombardamenti selettivi. Secondo il generale Martin Dempsey, presidente degli Stati Maggiori Riuniti statunitense, queste eliminazioni mirate hanno minato la capacità di coordinamento degli jihadisti.
Ma non ci si deve illudere troppo. Infatti, proprio perché la campagna contro di loro procede a rilento, le milizie del Califfo sono ancora all’offensiva. A Sinjar hanno subito una sconfitta, ma le loro truppe sono ancora lì, presenti, sul terreno e continuano a combattere i peshmerga. Peggio ancora nella provincia di Anbar, nell’Iraq occidentale, dove l’80% del territorio è nelle mani degli jihadisti, spesso accolti amichevolmente dalla popolazione locale araba sunnita. I miliziani del Califfato stanno stringendo da vicino la grande base aerea irachena di Ain al Asad. Se cade, potrebbero usarla come trampolino di lancio per la conquista di Baghdad.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:50