Impasse politica   in atto in Israele

A distanza di poco più di due anni, il popolo israeliano si ritroverà a dover votare per il proprio parlamento e per un nuovo governo. Quello attuale ha avuto una vita breve e piuttosto improduttiva, imbrigliato da una coalizione eterogenea, e sotto potenziale ricatto di forze di provenienza, e obiettivi, inconciliabili. Israele ha sempre contenuto nel proprio elettorato una moltitudine di anime, che con il passare del tempo si è moltiplicata creando nuove forme e necessità espresse infine in una miriade di partiti politici, che hanno scardinato la preponderanza dei blocchi storici che avevano governato con relativa tranquillità numerica il paese nelle sue prime decadi.

Il parlamento israeliano prevede una sola camera (Knesset) di 120 deputati (membri della Knesset) i quali vengono eletti con un sistema proporzionale con sbarramento del 2%. Questo significa che il leader del partito che riesce a raccogliere 61 o più deputati nella propria coalizione solitamente post elettorale, governa il paese. Basta una rapida occhiata alle composizioni delle Knesset precedenti per capire quanto il sistema attuale Israeliano sia inadeguato per le sfide che il paese si troverà a dover affrontare. Fino alle elezioni del 1996, il partito di governo aveva sempre superato i 40 seggi, a volte anche i 50, rendendolo meno dipendente dagli alleati della coalizione, e con vero e concreto potere decisionale.

Con il passare degli anni questo fatidico 61 è stato sempre più difficile da raggiungere, date le tante voci che coesistono nel parlamento e che trovano difficili punti di incontro. Nelle elezioni del 2013 il Likud e il partito di Lieberman presentandosi insieme raggiunsero 31 seggi, e nel 2009 la vincente Tzipi Livni ottenne 28 seggi coi quali non riuscì a formare una coalizione di governo, dovendo conseguentemente cedere il passo al rivale Netanyahu (il quale raggiunse la scarna cifra di 27 seggi).

Le spaccature fra religiosi e laici, i quali a loro volta si dividono in diverse correnti e movimenti, il partito dei coloni, come oramai viene chiamato e il cui bacino di elettori fa gola a tutti ma che poi può esercitare potere di ricatto sul governo (come è successo all’attuale presidente Netanyahu), sono solo alcuni degli aspetti che rendono impossibile una Knesset bipolare o quantomeno con due forze politiche di maggioranza ampia a cui poter affidare la formazione di un governo operoso. A sinistra i voti si disperdono nella frantumazione di quello che furono i laburisti, di Kadima e fra i vari movimenti pacifisti. Il voto arabo, sia quello cristiano che musulmano, storicamente diviso fra vari partiti, sembra sempre voler preoccuparsi del proprio orticello e poco si interessa delle sorti di un paese percepito distante e visto non di rado con sospetto, o peggio.

Il tentativo della Knesset di creare il “leader dell’opposizione”, per dare un ruolo e uno status maggiormente unitario a chi si trova fuori dal governo, non ha avuto il successo sperato, e ogni forza politica nel parlamento fa opposizione a modo proprio, a volte disconoscendo apertamente il “leader” nominato nel parlamento.

È indubbio che questo sia il prezzo da pagare per la democrazia, e uno stato veramente democratico deve dar voce a tutte le proprie componenti, ma ai fini della governabilità il problema che da qualche anno a questa parte si ripropone non trova soluzioni immediate. Inizierà adesso una campagna elettorale che si preannuncia piuttosto calda, dove l’attuale capo di governo dovrà convincere gli elettori del proprio buon operato e, non del tutto a torto, di essere l’unica figura in grado di poter gestire il paese. I partiti di opposizione (alcuni di essi si trovano già nelle file del governo) proveranno a ingrassare le file dei propri eletti grattando sul discendente indice di gradimento di Netanyahu, mentre altre forze politiche mireranno a mantenere il proprio potere nelle zone e sulle rispettive componenti etniche e religiose del paese.

Il tempo che manca alle nuove elezioni non permette di poter azzardare previsioni sui risultati, ma chiunque riuscirà a formare una coalizione di governo non potrà farlo se non stringendo le mani di chi avrà combattuto strenuamente durante la campagna elettorale, e in buona sostanza tradendo le aspettative e le promesse fatte al proprio elettorato. Niente di cui sorprendersi, anche questo fa parte del gioco democratico, quanto però dovrebbe far riflettere è la opportunità per un paese come Israele, chiamato a grandi decisioni, di consumare le proprie energie in una guerra elettorale che da qualche tempo disgrega il tessuto sociale dello stato, e lacera quella identità e unità che più di una volta lo salvò dalla sicura distruzione. Bisogna chiedersi se esiste la possibilità di una inversione di tendenza, se Israele può e vuole compiere la svolta decisionista per le sfide, urgenti, che deve affrontare. A queste domande, però, potrà solo rispondere il tempo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:47