Partiamo da un presupposto a prova di smentita: dal 2011, cioè dall’inizio delle primavere arabe, la disinformazione o meglio la cattiva informazione è stata padrona incontrastata del campo della comunicazione. Si sapeva ciò che qualcuno voleva si sapesse, si vedeva solo ciò che qualcuno aveva interesse si vedesse. Abbiamo per mesi contrastato una macchina della propaganda con sede nel Golfo e filiali in Europa e negli Usa che aveva fatto credere alle masse come l’Islam politico potesse essere l’unica soluzione. La paura ha fatto il resto e si è creato un pensiero unico alla base del quale c’era solo assuefazione a non ragionare, non avendo mai potuto vedere la realtà.
Nelle elezioni di fine 2011 in Tunisia, Ennahda vittoriosa, praticamente nemmeno si sapeva chi fossero gli avversari e in molti hanno chiosato, con una superficialità offensiva nei confronti del popolo tunisino, che la prova della democrazia era stata superata. Peccato che il governo sia stato perennemente transitorio e che la stragrande maggioranza delle persone non abbia mai visto o letto delle intimidazioni salafite per le strade e non abbia dunque compreso la minaccia, nemmeno troppo velata, di una rivoluzione estremista autoritaria in caso di sconfitta degli islamisti. Ci fecero vedere le file di persone intente al voto, ma mai le piazze della protesta, che gridavano al mondo un’operazione di occupazione del potere sostenuta dall’esterno. A tre anni di distanza la musica non è granché cambiata, se non fosse per le nostre denunce e per i video che la rete permette di diffondere e che hanno mostrato con chiarezza quale Tunisia avevano in mente i vincitori delle urne del 2011: un regime confessionale, peraltro non riuscito, che non si rendeva nemmeno conto della crisi catastrofica in cui il Paese è scivolato.
In Europa dai mezzi tradizionali e dai media che si considerano di alto livello nemmeno una parola sulla formazione laica che si contrapponeva a Ennahda, a quel Nidaa Tounes che poi fatalmente ha vinto le elezioni. Perché la propaganda può fin dove la fame e la crisi non prendono il sopravvento. Unleit motiv che era già stato visto in Egitto, dove il fallimento di Morsi ha fatto sì che il potere sia tornato nelle mani di un uomo forte, il generale Al Sisi. Cosa voglio significare con queste poche righe? Che l’elite europea e mondiale, al guinzaglio dei poteri forti petroliferi, ancora non ha compreso il momento e non si è resa conto della fine di un pensiero, di un’era. La fine dell’era dell’estremismo mascherato da democrazia, della falsa informazione che si traveste da imparzialità. Se oggi io chiedessi alle persone, anche a quelle che gravitano attorno al mondo della geopolitica cos’hanno letto o visto di queste elezioni tunisine, mi risponderebbero “le interviste dei leader di Ennahda”, di uno in particolare su cui grava tutto il peso della sconfitta del suo partito e della vittoria dei laici, dei liberali che ha tentato di mettere all’angolo.
Ancora una volta dunque l’informazione ha fallito in parte il suo ruolo, ovvero quello di separare i fatti dalle opinioni, di non parteggiare per qualcuno e di raccontare il presente e il futuro di un Paese alle prese con la ricostruzione, umana e morale prima che economica. Che ha a che fare con il suo senso della paura del terrorismo e dell’islamismo armato. E che oggi meriterebbe un plauso per essersi sporcato le mani dell’inchiostro di cui sono scritti i libri di storia.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:46