Recep Erdogan,   il dilemma Turchia

Deve essere stata sofferta la decisione di Recep Erdogan di lasciare passare lungo la frontiera turca i peshmerga curdi che andranno a combattere accanto ai militanti curdo-siriani del Partito di Unità democratica (PYD) contro gli islamisti dell’Isis, che da oltre un mese accerchiano la città di Kobane. La mossa turca era fortemente attesa dagli Stati Uniti e dagli altri alleati della Nato impegnati nella coalizione internazionale contro l’Esercito Islamico; in verità al governo di Ankara era stato richiesto anche un intervento militare al di là della frontiera per bloccare l’avanzata degli jihadisti, ma su questo Erdogan e il primo Ministro Davutoglu sono stati irremovibili: per il momento la Turchia non si farà coinvolgere in una guerra fuori dal suo territorio che rischierebbe secondo i leader di Ankara di esporre il paese a pericolosi focolai anche all’interno.

Sul governo di Erdogan la Casa Bianca aveva condotto un serrato pressing nelle settimane scorse: il segretario di Stato Kerry era arrivato ad usare le parole grosse con il suo collega turco Cavusoglu e il vice direttore operativo della Cia, la signora Avril Haines, già stretta collaboratrice di Obama, era stata inviata in gran fretta ad Ankara per incontrarsi con il capo del Mit, i servizi turchi, Hakan Fidan. Poi sabato scorso una lunga telefonata tra il presidente Obama e Erdogan, nella quale il capo della Casa Bianca comunicava che l’aviazione americana avrebbe paracadutato nelle ore successive ai resistenti del PYD a Kobane armi e munizioni.

A quel punto a Erdogan non restava altro che aprire il corridoio ai peshmerga e in tal senso ordinava al suo ministro degli esteri, Mevlut Cavusoglu, di annunciarlo alla stampa in concomitanza con gli aiuti americani, ribadendo però che la Turchia non sosterrà direttamente i militanti del PYD, visti con sospetto per la loro vicinanza ideologica ai guerriglieri autonomisti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), considerato da Ankara un’organizzazione terrorista. Il 2 ottobre scorso il Parlamento turco aveva approvato una mozione che autorizza il governo ad inviare truppe in Iraq e Siria per fronteggiare lo Stato Islamico e ogni altra formazione terrorista.

Il voto era arrivato dopo un lungo dibattito a porte chiuse; malgrado la larga maggioranza, 298 voti a favore e 98 contrari, la discussione in aula ha avuto toni molto accesi e momenti di grande tensione. Alla mozione turca ha reagito duramente il governo di Assad a Damasco: un portavoce del governo siriano si è affrettato a dichiarare che ogni azione militare del governo turco in Siria verrà considerata una vera e propria aggressione contro uno Stato membro delle Nazioni Unite. Va ricordato che la Turchia è il principale sostenitore dell’Esercito siriano libero (ESL), una delle componenti che si oppone al regime di Assad nella sanguinaria guerra civile che si trascina seminando morte e distruzione nel paese da oltre tre anni; dal fronte anti-Assad sono nati anche l’Isis e gli estremisti Al Nusra, finanziati dai paesi del Golfo, primo tra tutti il Qatar.

Nelle fila dell’ESL, a cui la Turchia ha donato armi e munizioni, combatterebbero almeno 700 turchi reclutati dal Mit. Il voto del 2 ottobre comunque non avrebbe un effetto operativo immediato secondo quanto ha dichiarato lo stesso ministro turco della Difesa, Ismet Yilmaz, che ha ribadito che la Turchia non vuole essere coinvolta in una nuova guerra. Per assonanza, il ricordo è andato all’ottobre 2012, quando i soldati dell’esercito regolare siriano spararono colpi di mortaio dalla Siria contro un distaccamento di ribelli dell’ESL sulla frontiera turca; alcuni proiettili caddero sul villaggio turco di Açakale, provocando 5 morti, tra cui 4 bambini.

L'artiglieria turca rispose colpendo posizioni siriane. Il Parlamento turco approvò immediatamente, anche in quella occasione, l’intervento militare ma Erdogan preferì rivolgersi alla Nato chiedendo il dispiegamento di batterie di missili Patriot lungo il confine turco-siriano, che il consiglio dell’Alleanza atlantica approvò il 2 dicembre. Cosa si cela dunque dietro l’incertezza turca? Erdogan teme che un coinvolgimento diretto dei suoi soldati in Siria ed Iraq, oltre ad avere esiti temporali incerti e richiedere un alto contributo di sangue, possa innescare un effetto domino con pericolosi rischi di attentati terroristici all’interno della Turchia.

Quando ha deciso di aderire alla coalizione internazionale contro l’Isis il 27 settembre scorso, dopo forti insistenze delle cancellerie occidentali, il leader turco ha quindi escluso un intervento militare diretto della Turchia e ha chiesto l’istituzione di una zona cuscinetto e di una no-fly zone a ridosso dei confini del suo paese con la Siria e l’Iraq. In cambio ha accettato di accogliere centinaia di migliaia di profughi che fuggono disperati dalle aree occupate dagli islamisti. Il presidente turco guarda poi con preoccupazione al fronte interno, dove molti deputati, anche del suo partito, sono contrari ad un coinvolgimento maggiore nella lotta contro l’Isis per ragioni confessionali; Erdogan invece deve poter contare sul più ampio consenso in vista dell’ambizioso programma di riforme, inclusa quella costituzionale per dare pieni poteri alla presidenza della repubblica, che si appresta a presentare in aula.

Vi è poi il nodo curdo, sicuramente l’argomento più delicato: in Turchia vivono circa 15 milioni di curdi, con fortissime istanze separatiste ed indipendentiste, che rappresentano il 20 per cento dell’intera popolazione turca. Il PKK, il partito dei lavoratori curdi, fondato da Abdullah Ocalan nel 1978, dal 1984 è in guerra contro il governo di Ankara, con attentati e imboscate che sono costate la vita a più di 40 mila persone, tra turchi e curdi. Nell'autunno del 2012 Erdogan ha avviato negoziati diretti con Öcalan, condannato a morte e poi all’ergastolo, nel tentativo di trovare una soluzione pacifica al conflitto. Il rifiuto del governo di intervenire a Kobane e di lasciar passare i rinforzi curdi lungo la frontiera ha scatenato però la rabbia di migliaia di giovani curdi che sono scesi la settimana scorsa in strada in tutto il paese, provocando tumulti che hanno causato decine di morti e centinaia di feriti.

Aerei F-16 dell’aviazione turca hanno colpito diversi obiettivi del PKK, dopo gli attacchi contro stazioni di polizia nel villaggio di Daglica (Sudest), a Tunceli e a Geyiksuyu. I negoziati di pace sono ora in grave crisi; se il fronte curdo dovesse registrare l’unità di intenti dei tre partiti, il PKK in Turchia, il KDP in Iraq e il PYD in Siria, il governo di Ankara rischierebbe di trovarsi accerchiato e sarebbe costretto a venire a patti rinunciando alla sovranità territoriale su aree importanti del paese. Minaccia alla quale Erdogan non può piegarsi. Infine i paesi vicini di Ankara, a cominciare dall’Iran, guardano con sospetto ogni attivismo di soldati turchi nella regione, al quale potrebbero rispondere alimentando l’instabilità interna della Turchia. Recep Erdogan e il suo governo sono dunque chiamati a scelte complicate che condizioneranno il futuro prossimo della Turchia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:47