Sempre più Ebola,   cresce la paura

Anche la Germania registra la prima vittima da ebola. Si trattava di un sudanese di 56 anni, impiegato delle Nazioni Unite, che aveva contratto il virus in Liberia e che era stato portato a Lipsia a bordo di un aereo speciale nei giorni scorsi per essere sottoposto ad un disperato tentativo di guarigione presso il reparto specializzato dell’ospedale Sankt Georg; un altro paziente è ricoverato presso l’ospedale di Francoforte mentre un terzo è stato dimesso, guarito, dall’ospedale di Amburgo dopo cinque settimane di cure in isolamento. Si registrano casi in Belgio, Francia, Regno Unito. In Spagna un paziente è morto a Madrid e un’infermiera che lo aveva curato è stata contagiata ed è ricoverata in isolamento in condizioni stazionarie. A Roma e a Milano, nei giorni scorsi, ci sono stati allarmi fortunatamente rientrati, ma ci si aspetta un caso “vero” da un momento all’altro. Insomma il virus ebola è entrato nel mondo della globalizzazione.

I dati dell’Organizzazione Mondiale della sanità parlano fino ad ora di oltre 4000 morti, ma il numero potrebbe essere drammaticamente molto più alto. Su questo giornale, ad agosto, avevamo scritto sulla pericolosità del virus e sulla necessità che la comunità internazionale facesse di più in aiuto dei paesi africani incubatori per tenere sotto controllo la malattia ed evitarne il contagio planetario. Ma la risposta è ancora insufficiente. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è riunito d’urgenza martedì 14 per discutere le strategie da mettere in atto ma nessuna risoluzione è stata adottata. Lo stesso presidente Barak Obama, in un messaggio televisivo alla nazione, ha affermato che non si sta facendo ancora abbastanza e che a meno di poterlo contenere nei paesi incubatori, il virus minaccia centinaia di migliaia di vite e la destabilizzazione delle nazioni.

L’allarme è suonato chiaro nelle ultime settimane: ricercatori e analisti insieme ai responsabili sanitari di tutto il mondo, hanno dovuto modificare le previsioni verso ebola. All’inizio la malattia sembrava essere destinata ad essere relegata nei paesi poveri del continente nero; mai si sarebbe pensato che anche le “barriere difensive” dei sofisticatissimi centri ospedalieri negli Stati Uniti o in Europa sarebbero state abbattute. Fino a quando la sfortunata Teresa Romero Ramos, l’infermiera del reparto malattie infettive dell’ospedale Carlos III di Madrid, o la sua collega ventiseienne, di origini vietnamite, Nina Pham del Texas Health Presbyterian Hospital di Dallas, non sono rimaste contagiate dal virus dell'Ebola dopo essersi prese cura, la prima, del missionario Manuel Garcia Vijo e la seconda del liberiano Eric Duncan, il “paziente zero”, poi morti, si era convinti che ebola potesse essere contenuto e sconfitto in strutture mediche avanzate. Ma la realtà ha provato che nessun sistema di protezione è sicuro al 100 per cento. Tom Frieden, il direttore del mitico CDC di Atlanta, il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie contagiose, dopo il primo caso statunitense di Ebola confermato a Dallas e il contagio dell’infermiera Pham, ha dovuto riconoscere che la situazione è diventata “molto seria” anche se ha lanciato messaggi rassicuranti per evitare l’inutile panico.

Gli ha fatto eco il capo della missione Onu per l’epidemia, Anthony Banbury, che ha ammesso che gli sforzi internazionali non sono abbastanza per fermare Ebola e che si deve combattere il virus adesso o si rischia di trovarsi davanti ad una crisi senza precedenti per la quale non c’è un piano. Ebola corre veloce.

Ma come è stato possibile che infermiere di centri altamente specializzati siano state contagiate dal virus? Eppure, dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 e le lettere all'antrace inviate ai quattro angoli degli Stati Uniti, l’amministrazione americana ha investito miliardi nella prevenzione e nella predisposizione di piani di emergenza; migliaia di ore sono state dedicate ad addestrare personale medico e paramedico, militari e forze dell’ordine, financo i dipendenti pubblici e gli istituti scolastici. Solo per il 2014 il CDC di Atlanta ha ricevuto ben 11 miliardi di dollari di contributi statali e il personale ha raggiunto le 15 mila unità nelle varie sedi sparse per gli Stati Uniti. Ma ora qualcuno lancia le prime critiche sui metodi e le strategie adottate: i diversi organismi dello stato erano sì pronti a contrastare un’emergenza sanitaria ma forse non si attendevano un attacco così vasto e duraturo nel tempo. L’infermiera Nina Pham è stata accanto al paziente zero tutti i giorni, in diversi turni, e l’esposizione al rischio contagio così lunga le è stata poi fatale. Ora i colleghi del reparto malattie infettive del Texas Health Presbyterian Hospital di Dallas sudano freddo e aspettano con terrore che trascorrano i ventuno giorni del periodo massimo di incubazione di ebola per poter trarre un respiro di sollievo.

Occorre muoversi in fretta dunque per assistere quei paesi africani che da soli non ce la possono fare: in prima linea sono Guinea, Liberia e Sierra Leone, di gran lunga i paesi più colpiti. Poi Congo e casi registrati anche in altri paesi limitrofi fino al Senegal; la Nigeria è stata dichiarata libera da Ebola dopo gli otto morti e i 20 casi registrati nei mesi scorsi.

Il personale medico e paramedico in quei paesi sta dimostrando un coraggio straordinario, prendendosi amorevole cura dei pazienti contagiati e pagando un contributo altissimo in termini di vittime; se infermieri si possono infettare in centri altamente specializzati e sofisticati, indossando dei semi scafandri, immaginiamoci la difficoltà degli operatori sanitari in Africa dove le condizioni igieniche e logistiche dei centri sanitari sono a dir poco preoccupanti.

Le popolazioni africane sono disperate; molti pazienti, spesso poverissimi e analfabeti, arrivano anche ad evitare le cure mediche nell’errata convinzione che il virus possa aggredirli più violentemente negli ospedali. I soldati sono dovuti intervenire per imporre quarantene in Sierra Leone e Liberia; a Monrovia, capitale della Liberia, il presidente Ellen Johnson Sirleaf, Premio Nobel per la Pace, ha usato la polizia per limitare la libertà di circolazione delle persone nei quartieri colpiti portando a scontri e violenze. I paesi dove forte è il contagio non hanno né la capacità né i mezzi per affrontare la crisi. Le scuole sono chiuse da mesi, da quando è stato lanciato l’allarme ebola e i bambini rischiano di perdere anche l’unica possibilità per un futuro migliore; in Sierra Leone, il ministro dell’istruzione Minkailu Bah ha lanciato un ambizioso programma di scolarizzazione via radio; non sarà certo facile in un paese dove la diffusione di apparecchi radio non è altissima ma il rischio altrimenti è di ritrovarsi in futuro con una generazione di analfabeti.

Secondo il presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim, l'impatto economico dell'epidemia di Ebola potrebbe raggiungere 32,6 miliardi dollari entro la fine del prossimo anno se la malattia si diffonde agli altri paesi dell'Africa occidentale. Nei tre paesi colpiti, Liberia, Sierra Leone e Guinea, dove le economie sono ormai al collasso, la Banca Mondiale calcola in 9 miliardi di dollari i danni provocati dal contagio. Ci vorranno generazioni per rimetterli in carreggiata e tanti aiuti internazionali.

L’impegno contro ebola e la nostra solidarietà verso quei paesi deve farsi quindi ancora più forte: intanto, ed è motivo di orgoglio per noi italiani, fa molta strada la sperimentazione del vaccino anti Ebola sviluppato dai ricercatori italiani della Okairos di Pomezia, recentemente comprata dal gigante farmaceutico GlaxoSmithKline. L’Organizzazione mondiale della Sanità riceverà 10.000 dosi entro dicembre e un milione di provette nel prossimo anno. Il vaccino è in corso di sperimentazione su volontari umani; dopo le settimane di test in laboratorio, verrà utilizzato nei paesi endemici con la speranza che possa proteggere le persone dal virus. E’ il segno che ce la possiamo ancora fare!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:52