Usa: Obama alla prova   delle elezioni midterm

Tra meno di quattro settimane, martedì 4 novembre, i cittadini americani si recheranno alle urne per eleggere 435 deputati della Camera, 33 senatori (su 100) e 38 (su 51) governatori. Le elezioni, che si svolgono a metà del mandato presidenziale (midterm), rappresentano una sorta di giudizio dell’operato del Presidente e dal loro esito dipendono in larga parte le scelte politiche del successivo biennio del capo della Casa Bianca.

Secondo gli ultimi sondaggi, il Partito Repubblicano è dato in netto vantaggio rispetto al Partito Democratico del presidente Obama; i Repubblicani sono già in maggioranza alla Camera dal 2012 (233 contro 199), mentre al Senato basterebbero solo 6 seggi in più, rispetto a quelli attuali (47), per mettere i democratici (attualmente 51) in minoranza. Nelle elezioni, secondo molti analisti, sarà decisivo l' "Obama Factor", che vale più del 50%; in altri termini, più della metà degli elettori andrà a votare non tanto per scegliere un rappresentante al parlamento, quanto piuttosto per esprimersi sulle politiche del Presidente in carica.

La popolarità del presidente Obama è molto bassa, raggiunge solo il 44%. Secondo alcuni sondaggisti solo il 20% degli elettori voterebbe per mandare un messaggio a sostegno di Obama, mentre il 32% un messaggio contrario. Più o meno quello che accadde nell’elezioni di midterm del 2006, quando il presidente Bush perse il controllo del Congresso. A questo si aggiunge che la partecipazione dei sostenitori del partito democratico nelle elezioni di medio termine, soprattutto neri e ispanici, è generalmente inferiore a quella di chi vota repubblicano.

I dati attuali non confortano comunque i leader democratici; alla Camera dei Deputati la maggioranza repubblicana è solida; il partito conservatore ha un forte consenso negli Stati che inviano più deputati al Congresso e dovrebbe conseguire almeno 223 seggi, più dei 218 necessari per ottenere la maggioranza. Gli uomini del partito di Obama sperano però di conquistare tutti i restanti Stati e ridurre il distacco dai repubblicani, così da poter influenzare le decisioni future del Congresso.

La sfida più interessante è al Senato, dove i Repubblicani sono in minoranza da ben 8 anni ma sperano di poter ribaltare la situazione il 4 novembre. Il voto nella camera alta riguarda solo 33 sui 100 seggi senatoriali; il mandato dei senatori dura 6 anni e ogni due anni si rinnova un terzo dell’Aula. A novembre dovranno essere assegnati o riassegnati 20 seggi appartenenti a senatori democratici e 13 appartenenti a repubblicani. Il Partito Repubblicano, mentre è sicuro della riconferma di tutti e 13 i suoi rappresentanti, provenienti da Stati tradizionalmente conservatori, nutre forti aspettative, che sembrano confermate dai sondaggi, di strappare ai democratici qualcuno dei 20 seggi in palio.

Con appena sei senatori in più, la maggioranza, anche in Senato, diventerebbe repubblicana. A quel punto, Obama si ritroverebbe ad affrontare gli ultimi due anni del suo secondo mandato con un Congresso a lui totalmente contrario che potrebbe bloccare i suoi tentativi di riforme o le sue decisioni in politica estera. E la memoria va all’ottobre dell’anno scorso quando il duello tra i Democratici e i Repubblicani sulla riforma sanitaria, con il conseguente ostruzionismo parlamentare che impedì l’approvazione del bilancio federale, portò al blocco dei pagamenti pubblici, lo shutdown, che fermò uffici, ospedali e strutture pubbliche per due settimane.

Al Presidente Obama viene criticata innanzitutto la politica estera. L’opinione pubblica giudica poco efficace e ondivaga l'azione di Obama, dall’Ucraina alla lotta all’Isis; secondo alcuni l’indebolito ruolo americano di sentinella internazionale avrebbe riportato il Paese sotto la minaccia del terrorismo internazionale. Hanno fatto scalpore, al riguardo, le memorie di Leon Panetta, ex segretario alla difesa e capo della Cia, che ha criticato duramente le mosse in politica estera di Obama in particolare in Iraq, Afghanistan e nella guerra in Siria. Non meno severo il giudizio sull'economia, sebbene l'occupazione negli Stati Uniti sia tornata a crescere; i segni della crisi finanziaria si fanno ancora sentire in vasti strati della popolazione e moli ritengono che le promesse elettorali di Obama siano state mantenute solo parzialmente.

Anche in tema di diritti civili, immigrazione, ambiente, salario minimo e lotta alla violenza urbana, cavalli di battaglia dell’elettorato democratico, l’amministrazione Obama non riscuote grandi consensi. L’inquilino della Casa Bianca rappresenta quindi in questo momento più un problema che un vantaggio per i candidati democratici, che cercano nei comizi elettorali di convincere la base sui loro programmi, senza minimamente citare i risultati ottenuti da Obama.

Una vittoria repubblicana potrebbe essere il punto di partenza per definire il profilo del futuro candidato alle elezioni presidenziali del 2016; al riguardo l’ex presidente George Bush ha lanciato la candidatura del fratello Jeb, ex governatore della Florida, mentre da ampi settori del partito si fanno strada Rick Scott, attuale Governatore della Florida, e il senatore del Kentucky Rand Paul, uno dei leader del Tea Party. L’insuccesso democratico il 4 novembre potrebbe tornare utile anche a Hillary Clinton, sconfitta da Obama nelle primarie del 2008, sicura candidata presidenziale democratica, che non vede l’ora di vedere sconfessate le politiche del presidente in carica, in vista proprio delle presidenziali del 2016 dove è data al momento grande favorita.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:51