Ma quanto vivrà il   socialismo brasiliano?

Nonostante la pessima organizzazione dei Mondiali di calcio, nonostante l’umiliante sconfitta della nazionale, nonostante le proteste che per due anni hanno coinvolto vasti strati della popolazione, Dilma Rousseff (nella foto) è ben indirizzata verso la riconferma alla presidenza del Brasile. Al primo turno, infatti, la presidente uscente ha conquistato il 40% dei voti, contro il 34% del candidato di centrodestra Aecio Neves. L’ecologista Marina Silva, affermatasi nella protesta anti-Rousseff, è a un distante terzo posto, con il 20% dei voti. Di sinistra (verde invece che rossa) pure lei, la Silva potrebbe paradossalmente favorire Neves: chi l’ha votata ha espresso una protesta contro la Rousseff, soprattutto, e potrebbe dunque astenersi o buttarsi addirittura a destra turandosi il naso. Questo potrebbe essere l’imprevisto. Ma, nell’ipotesi più probabile, la favorita è e resta la Rousseff, diretta erede di Lula.

Le elezioni brasiliane, che fino a un paio di decenni fa sarebbero state relegate ai fatterelli di cronaca estera, buone solo per lettori appassionati o parenti di emigrati in Brasile, oggi sono di rilevanza mondiale. Brasile è infatti la prima lettera di “Brics”, le cinque potenze emergenti. Si deve solo capire quale modello scelga per il suo immediato futuro. Negli ultimi 12 anni, l’immenso Paese sudamericano ha scelto il Partito dei Lavoratori. Quando era andato al governo la prima volta, alcuni conservatori hanno sudato freddo e già paventavano la nascita di un nuovo “patto di Varsavia” latino con Castro, Chavez e Lula. Non si è verificato niente di tutto questo. A parte una retorica terzomondista e l’ospitalità concetta all’ex brigatista Battisti, i governi dei Lavoratori non hanno fatto la rivoluzione, non hanno fermato la globalizzazione, non hanno chiuso con le liberalizzazioni e soprattutto non hanno formato alcun blocco continentale post-comunista. Lula, insomma, non è mai stato un secondo Chavez. E la Rousseff non sembra affatto una Castro in gonnella.

Come tutti i governi di sinistra latino-americani, le amministrazioni Lula e Rousseff sono state molto brave a redistribuire le ricchezze. Non hanno reso tutti ricchi, ma hanno permesso agli strati più poveri della popolazione di uscire dalla miseria assoluta. Secondo l’ultimo rapporto della Fao, il Brasile è stato uno dei migliori Paesi ad eliminare la fame e la malnutrizione fra i propri cittadini. Il socialismo (quello latino-americano, in particolare) è specializzato in questo compito. Ma basta? A giudicare dalle proteste recenti, probabilmente no. Una volta uscita dalla povertà estrema, infatti, la popolazione tende a chiedere una vita migliore. Chi esce dalla fame, inoltre, tende a notare molto di più ciò che non notava prima: la disparità fra ricchi e poveri, lo spreco di Stato, la corruzione, l’inefficienza dei servizi pubblici. I brasiliani, oggi come oggi, ragionano molto di più da “borghesi”. E qualunque delusione, d’ora in avanti, pesa. Lo dimostrano le proteste massicce del 2013 e 2014. La prima sollevazione è scoppiata per un aumento, pur risibile, del prezzo dei biglietti dell’autobus. La gente è impazzita di rabbia perché ha collegato questo aumento con gli sprechi multi-miliardari (e relativa corruzione) per la costruzione delle infrastrutture dei Mondiali.

Il Brasile, una volta uscito dalla lista nera dei Paesi poveri, ha di fronte una possibilità concreta di diventare una grande potenza. Il socialismo di Lula, che finora è stato utile per fare un gradino in più, d’ora in avanti può essere un ostacolo. Per affermarsi, infatti, gli imprenditori hanno bisogno di poche e chiare regole e tasse basse. Il socialismo del Partito dei Lavoratori non può garantire né l’una né l’altra condizione. Non può farlo, a meno di non tradire il suo stesso elettorato: le tasse servono alla redistribuzione della ricchezza, le regole servono a dirigere lo sviluppo sociale sul modello desiderato dal governo. Più regole, tasse e spesa pubblico generano i due nemici dello sviluppo economico: arbitrio e corruzione. Se il Brasile non se ne disfa, non potrà svilupparsi oltre i livelli già raggiunti.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:43